«Il Giorno della Memoria va celebrato a testa alta»
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Di libri scritti da autori ebrei che hanno provocato lunghe e asperrime discussioni all’interno di Israele e tra gli ebrei della diaspora circa le «ragioni» dello Stato ebraico ce ne sono stati forse più di quanti si creda. Vale la pena citare - tra i primi in ordine di tempo - La rabbia del vento di S. Yizhar (1949, in italiano per Einaudi), storia di un drappello di soldati dell’esercito israeliano che esegue l’ordine di sgomberare con la forza un villaggio palestinese. Soltanto uno di loro avrà qualche dubbio.
A questo racconto si potrebbe aggiungere qualche pagina di quello che è stato finora il miglior romanziere israeliano - il più artista, il più poeta, e perciò il più libero - cioè Yoram Kaniuk, che nel 2011 chiese e ottenne dal Tribunale di Tel Aviv di cancellare la classificazione «ebreo» dalla sua carta d’identità, insistendo sul fatto che la rinuncia riguardava la sua identità ebraica ufficiale e non quella personale. «Non voglio far parte di un Iran ebraico» spiegò Kaniuk. Un arabo buono (1984) e Post mortem (1992) sono due suoi capolavori, il primo lo trovate da Giuntina, il secondo da Einaudi. Alta letteratura.
Ultimo in ordine di tempo di questa molto incompleta lista - ce ne sarebbero altri cento ragguardevoli - c’è il saggio Il suicidio di Israele della storica italiana Anna Foa, per Laterza.
Professoressa Foa, come è stato accolto il suo libro nelle comunità ebraiche italiane?
«Male, e bene. A Venezia la comunità ebraica mi ha invitato a presentare il libro. Finora unica in Italia. Quel pomeriggio sono stata criticata ma con gentilezza e alla fine è uscito un buon dialogo pieno di riflessioni. Era quello che volevo. Altrove, a Roma e a Milano, le reazioni sono state più dure. Ma tanti ebrei mi hanno scritto in privato dicendo che è stato un bene che il mio libro abbia sollevato certi argomenti. È andata in modo differente fuori dalle comunità: ho parlato in tantissime scuole davanti a studenti molto attenti».
Il titolo del libro è provocatorio. L’avesse usato un non ebreo sarebbe scattata immediatamente l’accusa di antisionismo, cioè, con l’aria che tira oggi, di antisemitismo, e magari, perché no, anche di «nazismo». Non poche persone, e quasi tutti i media, vivono in un superficiale delirio di analogie da due soldi. Come la vede?
«Vedo una polarizzazione sempre più stupida. Eppure è chiaro: l’antisionismo non è necessariamente antisemitismo. Può offrire spazio ad affermazioni antisemite, questo è certo, ma far coincidere le due dimensioni fa del male a tutti: agli ebrei, a Israele, che di fatto è sempre più isolata, e ai palestinesi. E poi, serve un po’ di storia. Gli ebrei italiani, e non solo loro, diventano sionisti dopo il 1945. Prima, potevano dirsi disinteressati o contrari a un possibile Stato ebraico. Una libertà che non hanno più. Guardi, non sto dicendo che l’antisemitismo non è in crescita:lo è, e di sicuro in Europa. Ma l’avere ridotto esclusivamente a esso le cause dell’attacco da macellai del 7 ottobre - in cui Hamas ha massacrato anche persone che vivevano con gli ebrei ma che ebree non erano - è stata una mossa politica scellerata che impedirà ogni pacificazione».
Netanyahu vuole o ha mai voluto una pacificazione?
«Netanyahu, dopo il massacro, ha subito fatto un parallelo con la Shoah e creato ad arte un sentimento collettivo per cui gran parte degli israeliani, già sotto shock, hanno creduto che stesse davvero accadendo una replica della Shoah e si sono quindi allineati al Governo. Il tutto era funzionale a una risposta militare che ormai non è più possibile definire nemmeno ‘sproporzionata’. È andata ben oltre. Persino oltre l’idea di vendetta. Questo non porterà, è evidente, a nulla di buono. In questo senso, il titolo del mio libro si riferisce a un suicidio che viene dall’interno».
Glielo chiedo: la risposta era funzionale a procedere verso la Grande Israele?
«È sotto gli occhi di tutti».
Ha scritto di «complessità dei sionismi». Mi pare che il sionismo revisionista, selvaggio e a modello fascista, di Žabotinskij, abbia sconfitto il sionismo socialista dei kibbutz. È lettura corretta?
«Sì. Spero tuttavia che possa riprendere quota l’idea di uno Stato democratico non sionista, aggettivo che introduce discriminazione immediata tra gli stessi cittadini. Certo, oggi sembra proprio che i ‘pazzi scatenati’ di cui parlava Amos Oz, cioè i coloni, abbiano vinto. Se così fosse, sarebbe una tragedia. Per me sarebbe come vedere la vittoria degli ayatollah in Iran, non c’è differenza. Lo scriva pure».
Lei sostiene che il sionismo «così come è stato proposto, lo Stato degli ebrei, non possa convivere con la democrazia». Eppure parliamo dell’«unica democrazia» in Medio Oriente.
«Chi la definisce così ha un’idea della democrazia che si limita al risultato delle elezioni, stile winner takes all. Chi ha la maggioranza prende tutto e può fare tutto. Credo che la democrazia si qualifichi come tale per molti altri aspetti che Israele ignora».
L’hanno accusata di mettere indirettamente sullo stesso piano il fondamentalismo islamico di Hamas e il Governo israeliano: «Come se una marmaglia di tagliagole potesse avere la stessa dignità di un Governo frutto di compromessi parlamentari, in una Knesset democraticamente eletta».
«Parliamo dello stesso Governo del ministro della Sicurezza Ben-Gvir? Quello che poche settimane prima che assassinassero Yitzhak Rabin disse: ‘Siamo arrivati alla sua auto, arriveremo anche a lui’? Lasciamo perdere».
Trova che questa guerra abbia segnato il tracollo del diritto internazionale nella regione?
«Mi fa soffrire che Israele abbia contribuito fortemente alla svalutazione delle istituzioni internazionali, come l’ONU o le Corti di giustizia. È passato il messaggio che in fondo si può privilegiare l’uso esclusivo e immediato della forza senza conseguenze. Non è così. Le conseguenze arriveranno puntuali nel tempo».
L’organizzazione del Giorno della memoria è particolarmente sofferta, quest’anno.
«Lo so. A mio parere, il Giorno della memoria deve essere collegato con l’attualità, anche la più tragica da comprendere col cuore e con la mente, perché è rivolto principalmente ai giovani e non credo si possa parlare loro della Shoah senza parlare di quanto sta accadendo a Gaza. Gli organizzatori verrebbero accusati di voler fare censura, il che aumenterebbe quell’antisemitismo che si vuole combattere. Il Giorno della memoria va invece celebrato a testa alta, in un clima di grande giustizia innanzitutto interiore: questo è il nucleo su cui è stato fondato e il motivo per cui rivolge a tutti, in Europa. In Israele c’è il Giorno della Shoah, che si rivolge solo agli ebrei. Sono due gestioni della memoria, se vuole, diverse. Ma in entrambi i casi è necessario non chiudere la propria identità in cassaforte. Metterla, piuttosto, in relazione con il mondo».