Il «re» della selvaggina chiude bottega
Prima o poi dovrà dirlo anche a loro, che è arrivata la fine. E non sarà facile, di sicuro. Lo zio Angelo e la zia Maria accolgono ancora i clienti - simbolicamente - come facevano 66 anni fa, in una vecchia fotografia d’epoca che Daniele Meni ha affisso all’ingresso. Tra le tovaglie a quadri e il pergolato verdeggiante, sembrano godersi la brezza estiva in una pausa dal lavoro. Non sanno che il ristorante Giardino tra pochi mesi chiuderà - e forse è meglio così.
Non sappiamo cosa direbbero, se potessero parlare («sono passati a miglior vita tempo fa» spiega Meni) ma una cosa è certa: Angelo e Maria Meni, lei sarta e lui contadino, quando nel 1958 si trasferirono da Lugano ad Astano avevano un’idea balzana («e se ‘verdum un ostaria?») e delle priorità ben chiare. «Allo zio piaceva bere e giocare a carte, la zia stava in cucina, ma durarono poco» ricorda il nipote, che è nato l’anno dopo il ristorante e al cui destino il ristorante doveva essere indissolubilmente legato, nell’arco di sei decenni. «Da allora tutta la mia famiglia ha gravitato attorno a questo posto» racconta. Lo stesso vale per generazioni di malcantonesi (e non solo). Ma prima ancora che uno storico centro d’aggregazione - ormai sono sempre più rari - il Giardino è stato in una parola «la vita» per il suo ultimo proprietario: a lui è toccato in sorte, alla fine, di decretarne la chiusura «per mancanza di eredi disposti a prenderne le redini».
Una storia di famiglia
Daniele Meni è un signore gioviale ed energico, che quando ha deciso una cosa, è quella. «Sarà l’ultima estate. I clienti mi chiedono di arrivare almeno a Natale, ma non ci penso nemmeno». Sorridente sotto i baffetti, assieme alla moglie Monique accoglie i visitatori sotto il pergolato nel nucleo di Bombinasco, raccontando le storie del Giardino, come facevano i suoi zii nella foto: loro però «lasciarono l’attività dopo appena due anni» ricorda, e la cedettero ai genitori di Meni, Nino e Franca, che dal 1961 la portarono avanti fino al ‘79. «Nei primi 12-13 anni i miei non fecero un solo giorno di libero» racconta il «Dani» sotto il pergolato oggi. «Mia mamma diceva sempre che era stanca. Ora la capisco: è un mestiere che prosciuga».
Il ristorante reca i segni della fatica - «sere, festivi, estate e inverno, sempre al lavoro» - e delle trasformazioni del Ticino nei decenni. Nell’allegro Dopoguerra i passatempi popolari cambiano: da osteria tipica - «due o tre piatti, all’inizio, i salumi li faceva mio padre» - il Giardino si trasforma e diventa pizzeria (la prima del Malcantone, nel 1973). Le tradizioni sanno di vecchio, Meni senior si adegua. «Era fatto così: non sapeva stare fermo e gli piaceva la compagnia» ricorda il figlio. Quando la moglie non ne può più, danno in affitto il ristorante al fratello di lei - «sempre in famiglia», è la terza gestione - e si trasferiscono ad Astano (dove gestiranno poi l’osteria Mena, «nonostante le lamentele della mamma»).
La cucina e le bocce
Meni junior ha preso molto dal padre, dopotutto: tornato nel ristorante natìo nel 1990 - «l’è lì che te spècia, è lì che ti aspetta» gli ripeteva sempre il «vecchio» - introduce due rivoluzioni anch’esse figlie dei tempi. La prima, lo scompaginamento dei ruoli di genere: l’uomo in cucina, la donna in quello che oggi si chiama front-office. Ai fornelli, la passione del «Dani» per la tradizione casereccia inizia a contagiare i clienti.
Gli anni ‘90 sono un periodo di transizione in cui passato e modernità ancora convivono, fianco a fianco. Daniele Meni realizza un sogno che, a guardarlo oggi, sembra pre-moderno come un boccalino da grotto. La passione per le bocce risale al 1985. «Lavoravo in un’altra osteria con un bellissimo bocciodromo e a furia di vedere giocare i clienti, mi innamorai perdutamente di questo sport» racconta oggi con un po’ di rimpianto. «All’epoca i tesserati alle bocciofile ticinesi erano migliaia, era un rito comunitario» ricorda.
È la seconda rivoluzione. Lo mette subito in chiaro, Daniele Meni: «Ho detto a mio padre va bene, prendo il ristorante, a patto di costruire un bocciodromo. Se no niente». È l’ultimo ampliamento architettonico del Giardino, che dal nucleo originario (due salette e un camino, per giocare a carte) è diventato tre volte più grande. Ma è anche la testimonianza - l’ennesima - dei tempi che cambiano.
L’ultima fase
Dopo anni di successi - «abbiamo fatto gare internazionali, abbiamo ospitato il campionato svizzero di scopa, centinaia di persone» ricorda Meni - le bocce e le carte passano di moda, le pizze sono sempre meno richieste. In compenso, forse proprio per compensare lo sradicamento collettivo - la noia da fast-food - i ticinesi cercano la cucina tipica con un senso quasi di culto. La sella di capriolo, il celebre cordon-bleu, la selvaggina e i vini nostrani riepiono il bocciodromo convertito nel frattempo in sala eventi (ma i corrimano in legno e le corsi delle bocce si vedono ancora oggi).Nella stagione della caccia il Giardino diventa meta di pellegrinaggi da regioni lontane. «Ho iniziato a fare la selvaggina da ottobre a novembre, poi ogni anno mi chiedevano di anticipare, e prolungare» ricorda Meni. «Negli ultimi anni sono arrivato a farla da settembre all’antivigilia di Natale». Mentre l’età della pensione si avvicina e i figli scelgono altre strade - «ognuno è libero, non ho risentimenti» - un tumore all’intestino, cinque anni fa, avvisa il «Dani» che è ora di rallentare. «È stato un punto di svolta, da lì ho vissuto tutto come un dono, ma ho anche capito che nella vita mi sono perso tanto». I nipotini anzitutto - «ho saltato tanti compleanni» - e l’amato Hockey Club Lugano, che ha sostituito nel suo cuore l’amore per le bocce: sono queste le due passioni che lo chef Meni coltiverà nel tempo libero dopo la chiusura. «Non rimpiango le mie scelte di vita, ho avuto tante soddisfazioni» conclude. «Ma adesso non vedo l’ora di dedicarmi al resto».