«Il ruolo dei designer si espanderà oltre i limiti del tangibile»
Architetta e designer spagnola, Patricia Urquiola - che è stata ospite all’Endorfine Festival - ha disegnato per Lissoni Associati, Kartell, Moroso, Louis Vuitton, Mutina, Alessi, Molteni, Boffi, Driade, Flos e Axor-Hansgrohe. Ma anche strutture ricettive come il Mandarin Oriental a Barcellona, il Das Stue a Berlino o il Sereno hotel a Como. Una carriere impressionante, la sua, che oggi porta avanti a Milano con una cinquantina di collaboratori.
Quanto la tecnologia incide sul suo lavoro? Quanto inciderà in futuro pensando all’intelligenza artificiale?
«Nella mia carriera ho vissuto importanti cambiamenti tecnologici, queste innovazioni hanno sempre avuto un forte impatto sul design. Ma credo che quello che stiamo vivendo in questo momento stia rivoluzionando la professione. L’automazione dei processi, l’intelligenza artificiale, i software e la robotizzazione della produzione aumenteranno la velocità e la complessità dei processi. Ciò che diventerà fondamentale è l’empatia progettuale, l’intelligenza emotiva, che non può essere replicata da una macchina nel breve termine».
Quanto è importante per lei l’uso di materiali riciclabili o ecosostenibili? Qual è la sua opinione sull’uso di materiali tecnologici innovativi e sperimentali?
«Nel mio lavoro c’è una continua ricerca verso un design sostenibile. Questo cambiamento si può ottenere attraverso materiali migliori, più circolari, più duraturi, con un’impronta migliore, ma soprattutto progettando comportamenti e lavorando sulla comunicazione. Trovare un nuovo linguaggio per la bellezza della rigenerazione, rovesciare continuamente il rapporto fra il brutto e il bello. Questo senso di cultura dell’attenzione e di cultura della curiosità, così basilare nel lavoro del designer, ci deve spingere sempre di più a progettare al contrario. Oggi è fondamentale pensare già alla fine della vita del prodotto quando iniziamo il progetto, come il prodotto si disassembla alla fine del suo ciclo di vita, come può essere riutilizzato. Pensare alla sua impronta. I progressi tecnologici hanno permesso di riciclare materiale di scarto, che poi può essere trasformato in qualcosa di utile e prezioso attraverso le mani degli artigiani. È una nuova idea di bellezza generata dai rifiuti. Mi piace l’idea che tra qualche tempo magari avremo solo oggetti riciclati».
Nasce prima l’idea di un oggetto o l’idea di un oggetto partendo da un materiale?
«Non ho questa visione schematica della progettazione, ho un approccio rizomatico alla ricerca e al processo progettuale: tutti gli elementi hanno la stessa importanza e si influenzano a vicenda in modo orizzontale, senza gerarchie».
Lei disegna per importanti società italiane e internazionali andando incontro giustamente alle loro esigenze, caratteristiche e aspettative. Come fa a conciliare il suo spazio di libertà e autonomia?
«Il mio lavoro è sempre uno scambio di idee che matura attraverso il dialogo con tutti i miei clienti e i membri del mio team. Cerco sempre di rispettare l’identità e il patrimonio di tutti i miei clienti. Cerco di evolvermi insieme a loro. Ci sono imprenditori e aziende disposti a mettersi continuamente alla prova come parte del loro processo di evoluzione. La mia libertà deriva da questo perché ho la fortuna di lavorare con aziende che credono nella mia visione e supportano anche le mie idee. Bisogna trovare i partner giusti per costruire buoni progetti».
Quando un oggetto è bello? Quando è semplice ed essenziale? Oppure quando le sue forme sono stravaganti e originali? Chi stabilisce cosa è bello?
«Oggi guardo la bellezza, l’estetica da una nuova prospettiva e credo tutti dovrebbero farlo. Credo che il nostro obiettivo debba essere la bellezza della rigenerazione. La funzione e la forma sono indubbiamente sempre centrali nel processo creativo ma non si ferma qui, un progetto è molto più che forma e funzione. Prima di tutto, è l’ispirazione che detta entrambi: forma e funzione seguono l’ispirazione e non viceversa. Questo è ciò che permette ad ogni singolo progetto di avere un’identità da raccontare. L’oggetto deve sempre avere la funzione del nostro benessere e ognuno lo interpreta a modo suo. Achille Castiglioni mi ha impartito una lezione preziosa: individuare l’elemento fondamentale, che lui chiamava così, intorno al quale gravita ogni progetto. Egli era maestro nell’identificarne istintivamente il cuore, il fulcro. Ci esortava a mantenerlo costantemente sotto gli occhi, a seguire una sorta di bussola interna. Questo perché, a volte, siamo portati a fare compromessi, a deviare dalla rotta e a smarrire il significato iniziale di ciò che avevamo in mente».
Come sta evolvendo il rapporto degli esseri umani con gli oggetti? Come immagina il futuro?
«La nostra cultura si fonda su una distinzione profonda tra oggetti e soggetti, una classificazione che in realtà non è così netta, specialmente oggi, io credo che il nostro ruolo come designer evolverà oltre i limiti del tangibile, estendendosi allo spazio digitale - un luogo di libertà al di là dei limiti geografici e temporali. I designer lavoreranno parallelamente nel mondo materiale e in quello immateriale».
Quale relazione c’è, se c’è, tra design e architettura? Come riesce a coniugare nel suo lavoro questi due mondi? Come incidono questi due mondi sul suo lavoro?
«Per me progettare è progettare. La mia doppia professione mi aiuta a immaginare un oggetto all’interno di uno spazio e quando creo un interno cerco il senso del luogo ogni volta diverso. Il processo è simile ma cambia solo la portata e le professioni coinvolte. Come designer, il mio lavoro è legato agli oggetti, ma la mia professione di architetto mi porta a riflettere sugli spazi, sulla nostra relazione con i luoghi. Mi piace passare dalla grande alla piccola scala. Sono molto fortunata perché nello studio, il team di architettura e design lavorano a stretto contatto e in modo interrelato. Molte volte trovo soluzioni architettoniche quando lavoro su un progetto di design e viceversa».