Le storie

Il Ticino è un cantone «adottivo»

A sud delle Alpi le adozioni internazionali sono meno rare che oltre Gottardo – E anche il malcontento dopo lo stop da Berna è abbastanza diffuso
Davide Illarietti
02.02.2025 12:00

Alcuni sono degli «insospettabili», altri sono più o meno noti. In Ticino le famiglie adottive sono più di quante forse si immagini. E le adozioni internazionali - pur una minoranza - sono un piccolo primato. Dei bambini adottati all’estero da famiglie svizzere nel 2023, oltre un terzo hanno trovato una nuova casa nel nostro cantone: 7 su 19. Fatte le dovute proporzioni, è molto e vuol dire che il declino di questa pratica è più lento a sud delle Alpi che nel resto del Paese (gli affidamenti sono scesi progressivamente nell’ultimo ventennio: erano stati 180 nel 2013, 335 nel 2006). Il Consiglio federale ha deciso martedì di puntare a uno stop definitivo entro l’anno prossimo. Una scelta che andrà votata in Parlamento e contro cui associazioni, attivisti e famiglie promettono battaglia.

È di questa opinione - «assolutamente andrà promosso un referendum» - l’oncologo ed ex consigliere nazionale Franco Cavalli, che ha adottato quattro figli in America Latina negli anni ‘80-’90 e non risparmia critiche al «suo» consigliere federale Beat Jans, il quale «sta promuovendo una politica di chiusura che non dovrebbe avere niente a che fare con il partito socialista».

«Salvati dalla strada»

José Cavalli, 34 anni, è ufficiale dell'esercito e un ex sportivo professionista (finalista ai mondiali di pattinaggio veloce nel 2010) ed è un esempio di quanto «l’adozione possa essere un mezzo di riscatto e una via d’uscita da situazioni difficili, e non per forza qualcosa di poco chiaro o addirittura di irregolare» sottolinea il padre. Assieme a lui la famiglia Cavalli ha cresciuto (oltre a quattro figli naturali) anche un fratello più piccolo, dal Nicaragua, e due bambini dalla Colombia: oggi hanno tutti oltre 30 anni e famiglie e professioni avviate in Ticino.

«Il destino mio e di mio fratello era probabilmente di finire sulla strada, una volta usciti dall’orfanotrofio, e magari nella malavita» ragiona José, che oggi fa l’assicuratore a Locarno. «Non dico che il percorso di integrazione non sia stato difficile anche qui, ma grazie alla mia famiglia, allo sport e al servizio militare ho superato gli ostacoli e mi fa male pensare che in futuro altri non avranno la stessa possibilità».

Morena Ferrari Gamba, consulente delle risorse umane e consigliera comunale a Lugano, ha avuto un percorso simile: da un orfanotrofio in India è arrivata a sette anni nel «salotto buono» sul Ceresio, dopo essere stata adottata da una famiglia di imprenditori e politici. «L’adozione è una sfida a cui a volte le famiglie non sono pronte, lo so per esperienza. Ricordo le passeggiate da bambina con gli operatori sociali, che personalmente trovavo ridicole. Sicuramente i problemi non mancano, ma rinunciare a prescindere a questa importante sfida, individuale e collettiva, mi sembra un grave errore».

«Una grande soddisfazione»

Monica Piffaretti, giornalista e scrittrice, è stata tra le prime a prendere posizione contro la decisione del Consiglio federale. Assieme al marito ha adottato una bambina 15 anni fa («la più piccola in famiglia, dopo tre figli biologici che sono già grandi e usciti di casa») e ricorda ancora il primo incontro in Etiopia, organizzato da un’associazione ticinese. «Quell’istante, almeno per me, equivale a quando senti il primo vagito in sala parto. Noi siamo la sua famiglia ma, a dire il vero, è lei che ci ha dato il privilegio di accoglierla e aprire di più i nostri occhi sul mondo».

Il ruolo di associazioni e intermediari che nei decenni passati gestivano le pratiche, in Svizzera come altrove, è stato oggetto di critiche e rivalutazioni: secondo Manuele Bertoli però non va fatta di tutta l’erba un fascio. L’ex consigliere di Stato ha una figlia adottata in Etiopia all’età di un anno (ora ne ha 18) e un figlio biologico di tre anni più grande. «Abbiamo vissuto questa esperienza molto naturalmente, partendo dal presupposto che i figli sono figli, non importa se adottati o meno». A prescindere dall’esperienza personale - «è una delle cose più belle che mi sono capitate nella vita» - il presidente della Commissione federale sulla migrazione è critico sull’indirizzo scelto da Berna: «È senz’altro vero che i diritti dei bambini sono prioritari, ma la scelta drastica di chiudere del tutto questa possibilità non è sensata: meglio sarebbe lavorare sugli standard di qualità delle procedure di adozione».

Vuoti da colmare

Il tema in realtà è controverso. Christelle Pagnamenta, giornalista originaria dell’Etiopia adottata negli anni ‘80 da una famiglia della Valle Maggia, sottolinea come il messaggio del Consiglio federale non sia stato «accompagnato da un’operazione di trasparenza e una vera assunzione di responsabilità da parte della Svizzera rispetto alle irregolarità commesse in passato». Lei stessa, racconta, si è scontrata con «una lunga serie di difficoltà e omissioni nello sforzo di ricostruire» le proprie origini: tutt’oggi convive con «un vuoto che copre circa tre anni». Non è poi d’accordo che si punti il dito sui paesi d’origine, per la mancanza di controlli: «A fare da intermediari nelle procedure ci sono sempre organizzazioni occidentali» sottolinea. «A oggi non so se un divieto sia giusto o meno. Ma penso che anzitutto vada fatta più chiarezza».

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