Imbucarsi nell'hotel milanese di Philipp Plein dove la pizza allo champagne costa 1.500 euro
Il «gippone» della Mercedes costa come un monolocale a Milano (cioè poco meno che in Ticino) e arriva con irriverente ritardo - tre ore - davanti al palazzo in via Manin. Del resto Mr. Plein è «irriverente» per stile anche se il personale era pronto: «Se dice un’ora - sussurrano - calcoliamo sempre due ore dopo».
Le solite scuse, tutte in inglese - «un meeting», una «call» chiaramente «last-minute» - fatto sta che il «gippone» con targa svizzera ha occupato il posto d’onore davanti al portone - ci starebbero due utilitarie - e il nuovo hotel dello stilista più controverso e fantasioso del Ticino è percorso da un brivido.
Senza orari
In realtà il brivido è iniziato da un paio d’ore, in un fervore di preparativi e allestimenti, quando s’è sparsa la voce che Plein era «partito da Lugano». Con gli orari, si sa, «Mr. Plein» ha un rapporto complicato e poco «svizzero» fin dai tempi in cui ordinava le pizze a notte fonda negli uffici sul Cassarate, con conseguenti polemiche sindacali. Anche il sushi - sempre a domicilio - in Ticino non gli è stato perdonato. A Milano invece la musica cambia: la notte è lunga e forse proprio per questo (così dice lui: vedi intervista) ha inaugurato qui a settembre il suo hotel con ristorante praticamente senza orari (dalle 9 alle 4 di mattina).
«Inizio a lavorare presto e finisco alle due di notte» racconta confermando le voci di stacanovismo Giovanni Berti, elegante tuttofare che si qualifica in inglese - events and reservation manager - e sembra oberato da mille impegni. Risponde alle telefonate dei clienti - «no signora, siamo al completo» - istruisce i lavavetri e le guardarobiere e accompagna i giornalisti per la struttura, tutto allo stesso tempo.
«Un’inaugurazione dopo l’altra»
È evidente che non è un buon momento per un reportage. L’albergo è ancora un cantiere con il fascino dei cantieri, il deejay prepara l’attrezzatura mentre i camerieri spostano i tavoli, spolverano una parete coperta di teschi d’oro, s’incrociano con gli imbianchini ancora sporchi di vernice. Su un bancone qualcuno ha dimenticato dei giocattoli di forma fallica. «Oggi è una giornata complessa», ammette Giovanni attraversando una corte interna tappezzata di fiori finti («costano più di quelli veri») su cui affacciano le suites. Vorrebbe parlare dell’albergo, dei lavori da 40 milioni, delle camere con finiture di pregio ancora da rifinire («siamo a buon punto, i prezzi non posso divulgarli») ma è chiaro che ha la testa altrove: all’evento della serata, al padrone di casa che arriva.
Del resto l’hotel di Plein è molto più di un albergo. Al suo interno racchiude tre ristoranti che stanno «aprendo al pubblico con eventi dedicati in una sorta di inaugurazione progressiva e permanente», spiega Giovanni sfinito. Il piatto forte è l’ormai famosa pizza allo champagne da 1.500 euro - «finora l’hanno ordinata una quindicina di clienti» - ma c’è molto altro. Stasera ad esempio verrà inaugurata un’ala dedicata alla cucina giapponese.
Non solo pizza
La tensione è nell’aria. I dipendenti di Plein ne parlano come di «un perfezionista» che «non tollera sbavature» e lo si vede dai particolari: lo stile barocco delle stanze luccicanti, piene di statue di scimmie e insegne al neon intraducibili («f...k me like you hate me»), crea un contrasto solo apparente con la sobrietà del dress code imposto ai dipendenti ma anche ai clienti. «Lo smoking è obbligatorio, mi dispiace», insiste Berti: «C’era scritto anche sull’invito».
Segue un breve diverbio in anticamera - la Domenica non ha lo smoking, del resto non siamo stati invitati - ma infine siamo ammessi nel clou della festa, il nuovo ristorante dove lo stilista fa gli onori di casa. «Sugli abiti è molto esigente, speriamo chiuda un occhio» ammicca Berti e disvela dietro un sipario rosso il Giappone lussureggiante di Plein. I camerieri vestono kimoni brillanti, alle pareti sono appese spade da samurai: il sushi viene servito sulle lame. Alla tappezzeria orientale si mischiano i caratteristici teschi d’oro - un marchio di fabbrica - che ricordano una cripta di cappuccini o il film «I Pirati dei Caraibi» come suggerisce un aiuto-cuoco.
«Nelle prove era tutto ottimo ma oggi deve essere ancora meglio» raccomanda Plein al personale riunito in cerchio per un ultimo briefing: sull’attenti nei kimoni sembrano davvero dei samurai pronti alla guerra. Lo stilista è attento e fa domande-trabocchetto - «se ci ordinano dei cocktail, cosa facciamo? Quanto costa un tavolo stasera?» - e cammina avanti e indietro come una tigre in gabbia. Rassetta di persona il bancone, impugna una lampada e i giocattoli di forma fallica - «mettete via questa roba» - infine scuote la testa. «Con una squadra così we will never win the fight - dice con una battuta - non vinceremo mai. Ma fa niente».
Comincia la festa
È giunta l’ora. L’equipaggio si disperde ed entra la folla di clienti, invitati e imbucati. Gli uomini sembrano tutti banchieri - per via dello smoking - e navigati habitué del lusso notturno. Si salutano con anglicismi e riso abbondante come il botox, la cui concentrazione nel ristorante è a livelli altissimi (a occhio quanto il reddito pro-capite) mentre le signore sembrano tutte modelle reduci delle passerelle milanesi (e forse lo sono). Hanno un loro fascino - purtroppo per niente gender-neutral - anche le donne delle pulizie vestite con divise bianco-nere, come cameriere del secolo scorso: ce ne sono tre-quattro a guardia della toilette che è un tripudio di marmo rosa e fenicotteri-peluche, forse il vero capolavoro del Plein designer d’interni. Da non perdere la tv davanti al wc e le poltroncine arrivate da Parigi che costano ciascuna quanto una pizza (cioè tanto).
La pizza allo champagne
Del resto tutto nel mondo e nello stile di «Mr. Plein» è eccesso e provocazione: se pochi ordinano la pizza allo champagne («questa sera ancora nessuno») pazienza perché è solo un simbolo, con buona pace dello chef Roberto Conti che si aggira per il locale ricordando che ha dovuto fare «una sessantina di prove» per perfezionarla. «Alla fine ci siamo riusciti», sospira sorridendo.
Intanto la festa è decollata e questo è l’importante. Peccato per lo spazio angusto - «fuori piove, se no avremmo usato il giardino» - e per i tempi del servizio che sembrano calibrati su quelli di Plein: afferma infatti che a Milano «si può mangiare anche dopo le dieci di sera, a differenza di Lugano».
È seduto in un angolo dove a turno è affiancato da ospiti e giornalisti («cinque minuti a testa») e sembra anche lui più rilassato ora che le danze sono partite. È estremamente gentile e di un’energia prodigiosa considerata l’ora tarda. Non lo preoccupano i sindacati o i vicini di casa - uffici di banche per lo più - e i clienti sono tutti con lui: sembrano carichi e pronti a proseguire fino a chissà che ora di notte. Vanno in visibilio all’annuncio di un tonno gigante che verrà sfilettato in mezzo alla folla. Ma sono ormai le dieci e mezza e noi ce ne andiamo a casa, come gli svizzeri.