In ginocchio davanti al robot
C’è chi arrivato alla soglia dei 70 anni dice che è ormai anziano e rinuncia all’operazione di protesi all’anca. Ma l’aspettativa di vita cresce insieme al dolore e in seguito ci ripensa. «Così mi è capitato di operare pazienti che dieci anni prima avevano detto no all’operazione salvo convincersi dopo per evitare di perdere la loro autonomia», racconta il dottor Danilo Togninalli, specialista FMH in chirurgia ortopedica e traumatologia dell’apparato locomotore e che alla Clinica Ars Medica di Gravesano da settimane ormai opera con l’ausilio di un nuovo robot, il Velys realizzato dalla di Johnson & Johnson, azienda che si sta specializzando in questo genere di macchine ottenendo evidenti progressi nella chirurgia digitale.
«I primi interventi, che abbiamo svolto dopo un periodo di prove e di simulazioni insieme a un collega che ha utilizzato questa macchina da parecchio in Svizzera interna, sono andati molto bene. Ma naturalmente - spiega ancora Togninalli - occorre un po’ di tempo per far scattare certi automatismi».
La riproducibilità dell’intervento
Il robot, che per ora assiste i chirurghi solo negli interventi delle protesi al ginocchio (ne esistono altri modelli che vengono impiegati per ricostruzione articolare, traumatologia, craniomaxillofacciale, chirurgia spinale e medicina sportiva), «viene utilizzato da un po’ di anni in molte cliniche e ospedali. Queste macchine, che si basano su sistemi differenti, hanno l’obiettivo finale di rendere riproducibile e precisa l’esecuzione dell’intervento. Tutto è nato qualche decina di anni fa con la cosiddetta navigazione basata sull’anatomia del paziente. Quello che si è aggiunto progressivamente - e qui passiamo nel campo della robotica chirurgica - è il fatto che la navigazione segue un percorso sempre più preciso, capace di eseguire i gesti necessari per l’operazione».
La raccolta di informazioni
Gli obiettivi di queste macchine, ormai tecnologicamente piuttosto raffinate, sono la rapidità dell’intervento, una minore invasività e più precisione. «Ma c’è un altro aspetto molto interessante - rileva Danilo Togninalli - e riguarda la possibilità del robot di raccogliere una vasta quantità di dati. In pratica la macchina conserva tutte le informazioni che si pianificano prima e dopo l’operazione dell’impianto della protesi. I dati vengono accumulati nel tempo e poi elaborati attentamente. In questo modo abbiamo la possibilità di trovare combinazioni che attualmente vengono studiate ma non in maniera estensiva. Quello che Velys ci consente di fare è ottenere un risultato clinico migliore proprio grazie a questa sorta di banca dati dove nel tempo vengono immagazzinate informazioni e le diverse variabili ottenute dai risultati dell’intervento e della fase post-operatoria. Insomma, ora possiamo correlare i dati clinici con questo sistema e ottenere misure molto più precise per migliorare sempre di più il nostro lavoro in sala operatoria».
La tecnologia, inoltre, aiuta il medico anche sotto un altro delicato aspetto. «Nel campo della protesi del ginocchio - racconta Togninalli - c’è un paradosso. Perché questi interventi vengono effettuati da decenni e continuamente viene migliorata la tecnica, oltre il design delle protesi. Ma, e devo aggiungere purtroppo, i risultati costantemente - e in questo da parte di noi medici e dei ricercatori c’è un senso di frustrazione - restano stabili, non crescono. Così siamo fermi a circa un 20% di pazienti che alla fine restano insoddisfatti. Perché non riusciamo a cambiare questa situazione nonostante gli sforzi? Non lo sappiamo. C’è qualcosa di misterioso che non ci fa ancora capire cosa non va durante il processo. Questo contrariamente agli interventi della protesi dell’anca dove invece il 98% pazienti ritiene i risultati finali estremamente positivi».
La speranza di vita
Per quanto riguarda le protesi ginocchio «stanno aumentando in modo anche abbastanza importante, basta pensare che sino a qualche anno fa, diciamo una decina di anni fa, come detto ci trovavamo davanti a pazienti di quasi 80 anni che sostenevano d’essere troppo vecchi per un intervento. Dieci anni dopo sono venuti nel mio studio questi pazienti che chiedevano invece di effettuare l’intervento. E questo perché l’aspettativa di vita è in aumento e si cerca di evitare i dolori ma soprattutto di mantenere una certa autonomia. Insomma, l’attitudine è cambiata. Non direi però che l’età media sia cambiata, è aumentato il numero di pazienti perché attendere non si rivela una buona idea: alla fine la protesi deve essere inserita comunque ma in una età più avanzata e dunque con rischi maggiori».
L’artrosi che avanza
I problemi al ginocchio sono comuni alla popolazione che ha 60 anni. A quell’età si comincia a soffrire di artrosi con l’usura della cartilagine. A livello nazionale, secondo i dati della Società svizzera di ortopedia e traumatologia vengono impiantate ogni anno all’incirca 22 mila protesi dell’anca e 18 mila protesi del ginocchio. «Fare sport, camminare, è importante per avere una massa muscolare tonica che funziona come un importante ammortizzatore che protegge le articolazioni ma non può prevenire l’artrosi, sarebbe bello ma non funziona così».
«In conclusione, la mia impressione - fa notare Togninalli - è che l’attuale tecnica sia una tappa intermedia. Nel senso che la ricerca e la tecnologia andranno avanti e probabilmente nel giro di qualche anno i robot avranno una capacità di esecuzione ancora più autonoma e precisa, i tagli che oggi vengono fatti dal chirurgo saranno più rapidi. Quello che resterà è il fatto che i robot dovranno necessariamente essere guidati dal chirurgo che deve tenere sotto controllo la situazione e che ha la responsabilità dell’intervento. In pratica il fattore umano resterà sempre centrale».