Inizia l'era Milei: «Speriamo bene»

«Abbiamo bisogno di uno come lui». Leonardo Testone non si è mai interessato di politica. Dopo aver giocato a calcio in Italia, è tornato a casa sua, in Argentina, dove oggi allena i ragazzini del Boca Juniors, una delle più gloriose squadre di Buenos Aires. Non si è mai interessato di politica, Testone, eppure quando pensa a Javier Milei, il presidente eletto dell’Argentina, che entrerà in carica proprio oggi, domenica 10 dicembre, ha fiducia che le cose in Argentina miglioreranno. «Serviva un cambiamento e se Milei metterà in pratica quello che ha detto, per il nostro Paese inizierà un periodo migliore».
Testone non è l’unico a pensarla così in Argentina. Perché se in Europa e non solo l’elezione di Milei sta facendo discutere, riflettere. In alcuni casi anche allarmare. Anche perché «il Trump dell’America Latina», così è soprannominato Milei, ha promesso di «dollarizzare» l’economia (eliminare il pesos e introdurre il dollaro statunitense), privatizzare scuola e sanità, smantellare il welfare e chiudere la Banca centrale - tanto da essere considerato un politico di estrema destra - in Argentina la lettura (o l’interpretazione) dell’elezione di Milei è diversa. Molto diversa. «Ha vinto perché la gente è stufa e vuole un cambiamento», chiarisce Sebastian Conti, imprenditore di Buenos Aires. Che per spiegare il suo punto di vista - e di tutti gli argentini che hanno votato per Milei - dipinge una situazione del Paese ormai fuori controllo. Oltre ogni limite. Quasi incomprensibile per chi non vive in Argentina.
Cambiare a qualunque costo
«Il nostro Paese è allo sbando più totale. La corruzione è a tutti livelli, il ricorso al lavoro nero è ormai al 40%, l’inflazione ha superato il 150% su base annua, gli stipendi non bastano neppure per fare la spesa e come se non bastasse la sanità e la scuola pubbliche non funzionano», sottolinea Conti. Rabbia e frustrazione. Ma anche volontà di cambiamento. A qualunque costo.Sembrano essere dunque questi i sentimenti più diffusi oggi in Argentina. Un Paese che agli occhi dell’Europa si è messo nelle mani di un presidente pericoloso, come dimostrerebbe la designazione di Rodolfo Barra, una personalità con un passato di simpatie neonaziste, quale capo dell’Avvocatura dello Stato del nuovo Governo. Ma anche un Paese che sembra aggrapparsi a qualunque cosa, anche a un presidente che in campagna elettorale brandiva una motosega per testimoniare quale sarebbe stato il suo impegno se eletto.
Contro i governi precedenti
Cambiare. Non importa come. Sembrano chiedere questo gli argentini. Anche perché «per 20 anni hanno governato sempre gli stessi - continua Conti - e hanno fatto sempre i loro interessi, favorendo solo chi votava per i loro schieramenti. Così hanno indebitato lo Stato e impoverito sempre di più la gente. Perché anche i piani sociali non funzionano come dovrebbero. Gli aiuti vanno solo agli amici degli amici e chi li elargisce si intasca anche una parte dei sostegni».
Tra vie d’uscita e paura
Conti è arrabbiato. Ma al tempo stesso spera che le cose possano cambiare. E alla svelta. Dall’altra parte del Paese, nella Pampa, Carlos Lovera, commerciante, non ha votato Milei, ma scheda bianca. Eppure… eppure anche lui vorrebbe che cambiassero le cose. «Milei non mi piace, non mi piace nemmeno come parla - dice - ma capisco chi l’ha votato. I giovani in particolare sono stanchi. Stanchi della classe politica di sempre. Il nostro Paese sta attraversando una crisi nerissima e chi ci ha governato fino a ieri non è stato capace di offrire una prospettiva, una via d’uscita. A parte Milei, ovviamente. Ma vedremo se farà quello che ha promesso».
Anche Fernando Arcovio è commerciante. E a differenza della maggioranza del Paese non ha votato Milei. «Non condivido i suoi pensieri - afferma - la mia idea politica è un’altra. Se l’Argentina è arrivata al punto in cui si trova è anche a causa della pandemia, che ha peggiorato i problemi già esistenti». Arcovio non solo non ha votato per il nuovo presidente, che al tempo stesso è anche capo di Stato e di Governo, ma lo teme. Di più. «Ho paura di lui. Privatizzare l’industria nazionale significa sopprimere molti posti di lavoro. Un Paese si costruisce sull’industria nazionale. Solo così una Nazione può diventare forte e aprirsi al mondo».