«Israele ha diritto di difendersi e deve vincere»
Bernard-Henri Lévy, filosofo, giornalista e regista francese, ospite a «Pordenonelegge» è duro, preciso e inflessibile nel difendere Israele e nel giustificare il bombardamento sul Libano per prevenire ulteriori attacchi: «Israele, contro Hamas e gli Hezbollah sta combattendo una guerra che riguarda il mondo intero. Una guerra che va contro ogni forma di totalitarismo, di islamismo e terrorismo, come quando ha lottato contro l’Isis e Al Qaeda. Ma questa volta Israele ha il diritto di difendersi. L’esserci fatti sorprendere da Hamas, è la nostra colpa morale. Israele ha l’obbligo di vincere questa guerra che significa riportare a casa gli ostaggi e distruggere le infrastrutture militari di Hamas.»
Questi concetti li espone anche nel suo ultimo libro, «Solitudine di Israele» (La Nave di Teseo), in cui ribadisce che Israele ha subito un attacco terroristico almeno altrettanto impressionante di quello degli Stati Uniti l’11 settembre 2001 o di quelli francesi al Bataclan, nella sede di «Charlie Hebdo» e all’Hyper Cacher. E aggiunge: «Non solo Israele deve difendersi, ma è necessario che vinca, altrimenti Hamas resterebbe al potere, avrebbe una sorta di aureola del vincitore e Israele andrebbe incontro ad altri 7 ottobre».
Israele sta perdendo il consenso mondiale, da perseguitato rischia di passare per persecutore. Non sarebbe stato meglio dare una patria alla Palestina?
«Ci sono due elementi in questa domanda che bisogna spiegare bene. Innanzi tutto Israele, gli ebrei, sono sempre stati perseguitati. Quando si è vittima di un attacco dell’ampiezza e della crudeltà del 7 ottobre, e quando i terroristi dicono: lo scopo finale è avere la Palestina libera dal mare al fiume, e la scomparsa totale di Israele, non credo ci siano molte possibilità di dialogo. E se le persone che dicono queste cose hanno alleati potenti, come Hezbollah, l’Iran e la Russia, un Paese piccolo come Israele - un milionesimo del pianeta -, di fronte alla volontà distruttiva di tutte queste forze, forse è difficile affermare che è un persecutore».
Ma la patria dei palestinesi è il nodo più difficile da sbrogliare.
«Auspico uno stato palestinese da 50 anni e l’ho sostenutoo per tutta la mia vita. Ho fatto parte del gruppo che ha partecipato all’elaborazione del Piano di Ginevra - credo sia uno dei migliori - perciò non dica a me che ci vuole una patria per i palestinesi: ne sono persuaso. Però ora è il momento peggiore per dichiarare questo Stato: sarebbe un errore enorme».
Perché?
«Hamas sarà al potere, finché gli abitanti della Cisgiordania penseranno che i suoi uomini sono abili e valorosi combattenti, e per questo la questione dello Stato Palestinese, non può essere posta ora. Se domani l’Italia, la Francia e la Norvegia dicessero finora abbiamo commesso un errore, avremmo dovuto ascoltare i militanti dei diritti dell’uomo e dei diritti dei popoli, ecco qua lo Stato palestinese, sa quale sarebbe la conclusione in tutto il mondo?».
Quale sarebbe?
«Tutti penserebbero: quando si chiedono le cose con metodi pacifici non funziona; quando si negozia e si dialoga non funziona; invece quando si prendono degli ostaggi e si trucidano migliaia di persone innocenti o quando si prende un intero popolo in ostaggio, allora così funziona. È questo il messaggio che vogliamo inviare? Vogliamo dire questo ai terroristi del mondo intero? Una patria per i palestinesi è da molto tempo che avremmo dovuto dargliela, e quando Hamas sarà eliminato con tutti quelli che lo sostengono si potrà parlare di uno Stato palestinese, ma non ora».
Il blocco di Gaza che impedisce di rifornire di viveri oltre un milione e mezzo di sfollati, per il sottosegretario generale per gli affari umanitari dell’Onu è un «flagello per la nostra coscienza collettiva», non è inumano?
«Sono andato di persona a Gaza due o tre volte e posso dire che venivano bloccate solo le merci che servivano per la fabbricazione di armi. In secondo luogo il mercato è sempre stato chiaro: basta coi razzi, basta col blocco; niente razzi, niente blocco. Il giorno in cui Hamas smetterà di inviare razzi su Israele, allora non ci sarà più nessun blocco. La fonte di quello che è successo il 7 ottobre, non è l’humus, non è il contesto: è una ideologia. Siamo vicini ad una forma di nazismo che si chiama islamismo radicale che non risale al momento del blocco».
Cosa si può fare, allora?
«Hamas ha sempre detto fin dalle origini che loro non hanno mai accettato lo Stato di Israele. È proprio un fattore ideologico. Può esserci o non esserci un blocco, Gaza può essere liberata o occupata dagli israeliani, e non cambierebbe niente».
Perché Netanyahu non viene fermato visto che non tutti in Israele sono favorevoli alla guerra?
«Israele è una democrazia. Ci sono milioni di persone che vogliono che Netanyahu vada via perché vuole salvare solo se stesso: sono speculazioni, un’idea di complotto. Il dibattito in Israele riguarda la politica nazionale domestica portata avanti da Netanyahu e in particolare sui suoi progetti prima della guerra».
Non c’è alcun dibattito sulla necessità di battere Hamas?
«Ho avuto l’immenso onore di essere scelto dalle famiglie degli ostaggi per il discorso settimanale che viene tenuto ogni sabato nella piazza degli ostaggi. Ho visto i famigliari degli ostaggi, li ho ascoltati, alcuni di loro sono amici: però per quanto riguarda la distruzione di Hamas e di hezbollah, in Israele non c’è alcun dissenso. In realtà c’è un dibattito strategico: dobbiamo recuperare gli ostaggi prima e distruggere Hamas dopo o dobbiamo agire contemporaneamente. Questo è il dibattito in corso in Israele. Personalmente sono per la liberazione degli ostaggi. Mi piacerebbe che si potesse fare prima una cosa e dopo l’altra, ma non credo sia possibile».
Nell’eventuale post-Hamas, come pensa reagirebbe il popolo palestinese?
«Credo che il popolo palestinese si risveglierebbe e capirebbe di essere stato condotto in un vicolo cieco. Sarebbe un po’ come i tedeschi dopo il 1945. Un intero popolo che era stato stregato, si risveglia e finalmente capisce che non c’è alcuna altra soluzione se non quella del dialogo, dell’accettazione dell’altro e della condivisione della terra».
Il nuovo presidente americano, pensa saprà porre fine alle guerre in Israele e in Ucraina?
«I due candidati alla casa Bianca non sono la stessa cosa. Uno non è Pro Ucraina ed è Trump, mentre su Israele e Hamas i due candidati dicono la stessa cosa. Sono reduce da una visita negli Stati Uniti. Ho ascoltato e ho capito che fra i due candidati ci sono differenze immense, per cui non credo che potrà esserci un’intesa apprezzabile in Medio Oriente. In Ucraina penso possa andare diversamente: è un fronte in cui si gioca la pace mondiale».