Il caso

La cava della discordia

Si è conclusa con un fallimento la «rinascita» del marmo di Arzo, dopo la frana caduta tre anni fa – E ci si contende gli ultimi blocchi rimasti
©Gabriele Putzu
Davide Illarietti
23.03.2025 17:00

L’ultimo operaio se ne è andato tre anni fa. Nell’estate del 2022 un blocco da oltre 100 metri cubi si è staccato nella parte alta della storica cava di Arzo, attiva fin dal Tardo Medioevo: si è depositato sul fondo della miniera, dove si trova ancora oggi.

«Eccolo» indica Aldo Allio tenendosi all’esterno del perimetro recintato. «Da allora tutto si è fermato, non è più possibile toccare niente». I guai invece non si sono fermati con il masso. Al posto degli operai - bloccati per ordine del geologo cantonale, che ha definito la zona pericosa - hanno iniziato a lavorare gli avvocati.

Intorno alla cava negli ultimi anni si è protratto un contenzioso tra i proprietari del terreno, ossia il Patriziato di Arzo, e la ditta affittuaria che si occupava degli scavi, la MB Cave di Arzo Sagl. Per quest’ultima è finita male: la procedura di fallimento si è conclusa settimana scorsa, con la pubblicazione della «sospensione per mancanza di attivo» sul Foglio Ufficiale. Anche il Patriziato non se la passa bene: pochi giorni fa Allio, che ne è presidente, ha chiuso il preventivo di quest’anno con un deficit di mille franchi. «In realtà la situazione è ancora peggiore. Questa faccenda ci ha messi in ginocchio» dice scuotendo la testa.

I blocchi contesi

Il problema sono i costi di messa in sicurezza della cava, che hanno portato l’inquilino alla bancarotta e ora - passati di mano - stanno mettendo «in grave difficoltà» anche il Patriziato. La stima è di 50-100mila franchi, basata su una licenza edilizia ottenuta a suo tempo dalla MB Sagl, ma la cifra esatta «la conosceremo solo nelle prossime settimane, dopo avere interpellato delle imprese specializzate» spiega Allio. «Si tratta in ogni caso di costi superiori alle nostre disponibilità, siamo un piccolo patriziato la cui unica fonte di guadagno è una cava bloccata e da sistemare».

In realtà, all’interno della miniera c’è ancora qualcosa di valore. Non solo il marmo ancora da estarre, che è parecchio - il cosiddetto Macchiavecchia, nelle storiche varietà Broccatello, Venato e Rosso d’Arzo - ma anche un gruppo di blocchi già estratti e lavorati dall’impresa ormai fallita. Nelle ultime settimane quest’ultima si è rivolta all’Ufficio Fallimenti di Mendrisio chiedendo di poter tornare in possesso dei blocchi per i quali - si legge in una mail - «ancora oggi abbiamo notevoli richieste» e il cui valore si aggirerebbe attorno ai 150mila franchi.

La somma - se fosse vera - basterebbe a coprire i costi della messa in sicurezza della cava. «Ci mancherebbe che dobbiamo restituire il marmo» taglia corto Allio. «Nel caso lo utilizzeremo per ripagare i danni che questi signori hanno combinato, con la loro negligenza, prima di sparire nel nulla lasciandoci in grave difficoltà». Dal canto loro gli ex inquilini, contattati, non ci stanno a passare per capro espiatorio. «Abbiamo lavorato duramente per il rilancio della cava, investendoci i nostri risparmi personali e senza ricavare alcun utile in tutti questi anni» spiega Marisa Zucano, una dei due titolari. «Abbiamo diritto a un risarcimento per i danni che abbiamo subìto a causa di un accanimento nei nostri confronti: la proprietà ha deciso che il crollo era colpa nostra, e che dovevamo andarcene».

Il marmo resta dov’è

L’Ufficio Fallimenti ha tagliato la testa al toro. In risposta alle rivendicazioni dei cavatori, in una e-mail inviata a questi ultimi dal funzionario competente si legge che «la proprietà dei blocchi rimasti nella cava andrebbe chiarita» in quanto «sono stati lasciati sul posto senza essere rivendicati né fatturati, dimostrando un disinteresse per gli stessi». In ogni caso, conclude il funzionario, «su questi beni ci sarebbe comunque un diritto di pegno manuale» da parte del Patriziato.

È finita qui? Salvo possibili azioni legali, che gli ex inquilini non escludono di promuovere in futuro - «le carte lo dimostrano, abbiamo agito sempre in modo corretto e non è assolutamente vero che siamo scomparsi, ci hanno fatti scomparire» incalza Zucano - resta l’amaro in bocca per una seconda chiusura dopo quella avvenuta nel 2009, quando a gettare la spugna era stata la famiglia Rossi, che gestiva la cava da sei generazioni. Dopo otto anni di inattività era stato proprio un ex operaio della cava a riprendere in mano la concessione e a tentare l’impresa. «Ci abbiamo creduto fino alla fine e abbiamo messo l’anima per questa cava, rimettendoci personalmente» rivendica Marisa Zucano. «Sia io sia il mio compagno siamo usciti distrutti da questa vicenda». Non ne esce benissimo anche la reputazione della cava, presentata come la «ciliegina sulla torta» nel progetto di valorizzazione dell’area promosso dal Patriziato a suo tempo. E che ora - è il timore di tutti - rischia di rimanere chiusa ancora a lungo.

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