«La cultura del ricatto è ovunque»

Ai tempi dell’Unione sovietica le hall dei grandi hotel erano popolate di ragazze bellissime con minigonne vertiginose che seducevano il politico, funzionario o giornalista straniero di turno e, una volta consumato l’atto sotto l’occhio attento delle videocamere nascoste, gli davano il benvenuto tra gli informatori del KGB. Era una forma elementare di un virus che si manifesta oggi a tutti i livelli della società, dalle relazioni internazionali all’economia, dalla politica ai rapporti affettivi. È il virus del ricatto, come lo definisce Marcello Foa nel suo ultimo saggio, intitolato appunto «La società del ricatto» (editore Guerini e Associati), in cui l’ex direttore del Gruppo Corriere del Ticino ed ex presidente della RAI dimostra come questa «cultura» sia diventata un male sistemico.
Signor Foa, da dove nasce l’idea di collegare realtà molto distanti tra loro come le relazioni internazionali e i rapporti sentimentali?
«Nasce dall’esperienza personale. Mi occupo ormai da tanti anni di relazioni internazionali. Ma parlando con amici, imprenditori, intellettuali, psicologi, eccetera, mi sono reso conto che il concetto del ricatto emergeva sempre anche nei loro ambiti di competenza. Così ho intuito che ci dovesse essere qualcosa di più profondo. Ho messo insieme i puntini e mi sono reso conto che c’è davvero un collegamento trasversale. Allora ho deciso di gettare un sasso nello stagno, perché quello del ricatto è un virus silenzioso che si diffonde sempre di più proprio perché non viene diagnosticato».
Il ricatto è ovunque?
«Il ricatto è diffuso in molte parti della società. C’è fortunatamente una parte sana che non viene contagiata. Ma c’è anche una parte crescente in cui il ricorso al ricatto diventa un metodo. Mantenendo però una facciata, perché nessuno lo vuole ammettere esplicitamente».
Perché ci siamo piegati così facilmente ai ricatti?
«Io credo che sia un effetto della società liquida. Siamo passati da una società in cui c’era un’identità molto forte, c’erano dei valori e delle regole civiche che fungevano da freni comportamentali, a una società liquida dove tutto è relativo. Una società che spinge molto di più alla realizzazione personale e all’edonismo. Questo ha incentivato la diffusione della mentalità del ricatto perché ha reso meno efficaci i freni inibitori interiori».
Addirittura oggi c’è chi ricatta in maniera plateale, come Donald Trump.
«Nel libro spiego che a livello di relazioni internazionali siamo passati da tre fasi, almeno in Occidente. La prima è quella in cui dovevamo combattere il comunismo. Ai tempi della guerra fredda dovevamo essere compatti, per cui c’era una sorta di ritrosia a usare l’arma del ricatto, perlomeno nel nostro mondo occidentale. Poi con la globalizzazione si è passati a una situazione molto pericolosa, in cui il ricatto è stato utilizzato per esportare il libero mercato e creare una governance internazionale. Un metodo di governo molto subdolo. Ora con Trump siamo passati a un’altra fase. Il presidente USA non vuole la globalizzazione come l’abbiamo vissuta negli ultimi trent’anni. Lui vuole restituire il potere ai singoli Paesi. Trump ha una caratteristica, ovvero che non nasconde i suoi obiettivi. Per cui sta applicando alla politica internazionale le logiche talvolta brutali del mondo immobiliare newyorchese in cui lui è cresciuto. La sua forma di ricatto è diretta, molto esplicita fino alla brutalità e palesemente negoziale: vuole ottenere qualcosa in cambio».
La strategia di Trump funzionerà?
«Secondo me Trump ha sbagliato l’approccio strategico. Queste forme di ricatti funzionano se si sanno dosare. Invece lui con questa decisione di imporre dazi urbi et orbi rischia di perdere credibilità, ciò che lo danneggia molto, e di farla diventare un’arma spuntata, perché favorisce la coalizione degli altri Paesi contro gli USA. Secondo me questo è un aspetto che Trump ha chiaramente sottovalutato».
Come può uscirne?
«La domanda senza risposta è se Trump riuscirà a correggere il tiro e crearsi un’autorità morale, una leadership sul mondo che gli permetta di ottenere i suoi scopi senza essere così imprevedibile e per certi versi anche erratico. Secondo me lui non si aspettava di vedere la borsa crollare. Lui è un uomo d’affari e magari proprio un ragionamento economico gli permetterà, passati questi mesi turbolenti, di trovare una rotta di navigazione. Dobbiamo sperarlo per l’Occidente».
Ci sono politici finiti in disgrazia per scandalucci. Invece Trump ne ha combinate di tutti i colori, i suoi avversari hanno provato in tutti i modi a farlo cadere, tirando fuori accuse su accuse, eppure lui ci è passato sopra ed è stato eletto. Perché?
«Il problema della character assassination è purtroppo diffuso ovunque. Lo spiego nel mio libro. Si cerca di rovinare i rivali politici infangandone la reputazione, con accuse false, verosimili e talvolta anche vere. È spesso difficile distinguere il vero dal falso. Questo è un problema molto serio che riguarda tutte le democrazie occidentali. Nel caso di Trump, come era già successo con Berlusconi, c’è una buona parte del pubblico che lo considera come una vittima. Oltretutto negli Stati Uniti c’era un grande risentimento, che i giornalisti europei non hanno intercettato, nei confronti dell’amministrazione Biden, nei confronti di forme innegabili di censura sui social media, nei confronti di un approccio troppo elitario, ma anche dell’oscuramento dello scandalo del computer del figlio di Biden. Molti elettori si sentivano traditi dalla classe dirigente. Trump ha denunciato questi tradimenti ed è diventato l’eroe cui affidare il riscatto dell’America. Il suo successo va letto in questi termini».
Parlava di giornalismo. Si dice che oggi sia in crisi. È solo una questione di risorse economiche che si riducono o c’è dell’altro?
«Ci sono due questioni. Sicuramente le difficoltà finanziarie rendono i giornalisti più fragili. Se un editore non ha più le risorse per mandare avanti un giornale, diventa più facilmente ricattabile. L’altro punto importante è che purtroppo i giornali negli ultimi vent’anni sono diventati strumento di lotta politica. Invece di fare da contraltare alla politica, ne sono diventati la cassa di risonanza. Questo ne ha eroso la credibilità. Noi giornalisti avremmo davvero tanta autocritica da fare, ciò che purtroppo non mi sembra stia avvenendo».
Siamo ancora i cani da guardia della democrazia?
«Molto meno. Oggi i giornali sono quasi degli attori politici. I giornali di destra attaccano furiosamente la sinistra e si dimenticano degli scandali di destra. I giornali di sinistra fanno altrettanto. Questa estremizzazione fa male all’intero settore. Faccio un esempio. Il Corriere del Ticino è nato proprio per la consapevolezza di Agostino Soldati dell’importantissimo ruolo della stampa come organo indipendente capace di salvaguardare le virtù della democrazia. Oggi purtroppo questi principi di Agostino Soldati che dovrebbero essere alla base di tutti i media vengono invece dimenticati oppure disinvoltamente traditi. I giornalisti formano una sorta di élite che non conosce autocritica. Se non cambiamo modo di fare giornalismo, la stima dell’opinione pubblica nella stampa continuerà a calare».
È un discorso che riguarda anche la Svizzera?
«È un discorso generale. I principi di Agostino Soldati sono principi sani che dovrebbero essere al centro di qualunque missione di qualunque giornale nel mondo».
Tornando ai ricatti, nel suo libro lei suggerisce anche come difendersi. Ecco, come?
«Fondamentalmente i suggerimenti sono due. Il primo è di essere consapevoli del problema. La mia esperienza mi insegna che i problemi si diffondono quando nessuno ne parla. Per cui è molto importante cominciare a rendersi conto di tutte le forme di ricatto, compreso quello emotivo, nelle famiglie, tra coniugi, tra genitori e figli, in occasione di divorzi e spartizioni di eredità… C’è tutto un mondo che non viene abbastanza enucleato».
E oltre a parlarne?
«La seconda questione è che noi siamo ancora in democrazia, grazie al cielo. Per essere efficiente, la democrazia presuppone dei pesi e contrappesi che purtroppo negli ultimi anni sono stati spesso aggirati. La cultura del ricatto può essere combattuta e arginata solo se i pesi e i contrappesi nella società civile funzionano bene. E poi c’è un altro aspetto molto importante, quello del sistema economico, che deve permettere ai piccoli e medi imprenditori di non essere fagocitati dai grandi. La globalizzazione ha accentuato il ruolo dominante di pochi grandi gruppi, che tengono in mano l’arma del ricatto. Questo non va bene. Perché, come diceva già Luigi Einaudi, a rovinare l’economia di mercato sono proprio i monopoli e gli oligopoli».