Là dove osano i minatori

Non si può dire che non ci siano polvere, frastuono e caldo. Ma d’altronde si sta scavando il San Gottardo, non una montagna da ridere. E per di più si è all’inizio di una zona complicata sulla strada della Paulina, il nome che è stato dato all’enorme fresa che fino al 2027 avrà il compito di traforare verso Nord la seconda galleria autostradale. Sergio Massignani, direttore del cantiere del Consorzio Gottardo Sud, del resto lo aveva indicato poco prima su una cartina appesa negli uffici della direzione lavori, il cervello del cantiere. «In quello spicchio di montagna, chiamato Guspis, la faglia europea e la faglia africana sono come sovrapposte e hanno dato vita a un insieme di strati di rocce differenti, ognuna con le proprie specificità e diversità che complicano appunto lo scavo della galleria. Ecco perché prima ancora di iniziare i lavori principali a fianco del tracciato del secondo tunnel, che sono appena cominciati e ci hanno fatto avanzare per le prime centinaia di metri, abbiamo scavato un cunicolo lungo 5 chilometri. Dovevamo raggiungere quel punto esatto per iniziare per tempo ad attaccarlo e prepararlo così per la fresa, che potrà avanzare, si spera, senza troppi problemi».

Nel cunicolo
Il cunicolo scavato per 5 chilometri a fianco del futuro tracciato del tunnel porta esattamente qui. Dove un’impalcatura metallica larga, lunga e alta una decina di metri sembra ruggire di fronte alla roccia scura. Ma non è un ruggito. È il frastuono di due imponenti trapani che posti in alto dell’impalcatura bucano la parete. Non senza sforzo. Tanto che per tenerli fermi servono due potenti braccia meccaniche comandate dai minatori. In basso, sotto le arcate dell’impalcatura sembra invece di stare sotto una cascata tanto è lo scrosciare dell’acqua iniettata nelle fessure per la perforazione. Fa un certo effetto pensare che da qui passeranno decine edi migliaia di auto.Guidate da persone che per lo più non penseranno al fatto che c’è stato un tempo in cui questa galleria non c’era perché non esisteva. Un po’ come capita adesso per il primo tubo.Sembra quasi scontato che ci sia sempre stato quando invece la prima auto è passata nel tunnel proprio 45 anni fa.
Tra i minatori
Per terra ghiaia, acqua, fango e polvere. Mischiati fino ad assumere densità differenti. Giosuè Angotti è un minatore. Viene dalla Calabria e in dicembre andrà pensione. «Ho una casa in Valtellina e una in Calabria. Mare e montagna, insomma.Non penso insomma che mi annoierò, anche perché non riesco mai a stare fermo». Prima della pensione c’è però ancora da continuare un lavoro. Che Angotti sta facendo da sempre. E come lui ha fatto suo padre. Una tradizione di famiglia. C’è da scavare in un’altra zona, a Motto di Dentro. Collegata sempre dallo stesso cunicolo lungo 5 chilometri a fianco del tracciato principale.Un posto che quando sarà finito ospiterà la centrale di ventilazione. Angotti lavora principalmente a quelle pareti di roccia. Che devono sgretolarsi con l’esplosivo ed essere messe in sicurezza. I detonatori e le micce sono già arrivati. Due colleghi le stanno esaminando. Giacomo Reale ha sempre armeggiato esplosivi e non ha dubbi quando dice che oggi «il lavoro è diventato parecchio meno pericoloso». Il motivo è semplice. «Conosciamo esattamente dove e cosa andremo a «sparare», non ci sorprendiamo per le reazioni della roccia». Anche Massignani, poco prima, nel suo ufficio, aveva espresso un concetto simile. «È la montagna a dirci come procedere». Sono insomma lontani i tempi in cui i minatori mandavano gli uccellini nei cunicoli per capire se ci fosse o meno ossigeno in fondo a quel buio. Sconfinato.

«Siamo una grande famiglia»
Non si può dire insomma che non ci siano polvere, frastuono e caldo. Ma molto è cambiato e in meglio rispetto al passato. Quando la montagna reclamava le sue vittime. Ad Airolo c’è una targa del Spartaco Vela a ricordarlo. Angotti e Reale si muovono a loro agio. D’altronde, qua sotto, conoscono ogni anfratto. Ci stanno otto ore di seguito per turno. E la stessa cosa fanno i loro colleghi divisi per squadre. «Ci conosciamo tutti, siamo come una grande famiglia», precisa Michele Fomasi, che è di Mendrisio e ha fatto quasi sempre questo lavoro. «Prima ero sui cantieri dell’edilizia, poi ho cambiato. Mi piacciono l’ambiente, gli esplosivi, i macchinari. La polvere, il frastuono e il caldo? Fanno parte del gioco», sottolinea, prima di mettersi i tamponi alle orecchie per attutire il rumore dei macchinari, che non smettono un secondo di perforare, mettere in sicurezza e vibrare sotto il peso massiccio del San Gottardo. Sarà per via della luce, sempre soffusa a causa della polvere, che taglia gli ambienti e crea un’atmosfera quasi onirica, ma qua sotto si ha davvero l’impressione di assistere a un evento fuori dal comune e di sentirsi davvero piccoli e inermi di fronte alla grandezza della natura. «Ci si fa l’abitudine a lavorare al chiuso», interviene Reale. Di più. «Se ti fai prendere non vorresti finire mai».
L’esperienza che torna utile
Ora è invece il momento di smettere. Il turno è finito. Bisogna rimontare in auto, infilarsi nel cunicolo e uscire all’aria aperta, anche se la luce del sole all’inizio impedisce la vista. Alcune cose non cambiano mai. Altre invece sì, per fortuna. «Quarantacinque anni fa, durante lo scavo della prima galleria autostradale hanno perso due anni di lavoro nella zona dove la faglia europea e quella africana si incontrano - aveva specificato Massignani nel suo ufficio - due anni di lavoro per 200-300 metri di scavo. Ecco perché abbiamo deciso di realizzare per tempo il cunicolo, questa volta non volevamo farci trovare impreparati. Rispetto a 45 anni fa abbiamo insomma accumulato più esperienza, conoscenza e tecnologia sul San Gottardo».

Come un trapano
Anche la grande fresa che scaverà il tunnel vero e proprio e oggi è entrata nel massiccio solo per un centinaio di metri si è evoluta. È diventata un concentrato di tecnologia che avanzerà per 20-30 metri al giorno e ha bisogno di 8 minatori alla volta per funzionare e non fermarsi mai, visto che procede sette giorni su sette 24 ore al giorno. Anche lei però ha un limite. «Dobbiamo immaginarci la fresa come la punta di un trapano - spiega il direttore del cantiere - se per il ferro si usa una punta per il ferro si trapana meglio. Se ogni volta bisogna cambiare la punta perché bisogna bucare materiali differenti si va più lentamente. La fresa è stata concepita per affrontare tutto. Ma se quello che trova davanti è più omogeneo è chiaramente meglio».
Un lavoro senza giovani
Angotti, Reale e Fomasi scendono dall’auto e si fermano un attimo per sciacquarsi gli stivali e deporre il materiale di protezione personale. Dopo alcuni minuti risalgono sul mezzo, escono dall’area del cantiere e si dirigono verso gli alloggi e la mensa dei minatori ricavati dove una volta c’era l’albergo ristorante Alpina. Le camere di Angotti e Reale sono all’ultimo piano. Il panorama che si staglia dal balcone è notevole. «Guardo fuori spesso - ammette Angotti - è davvero bello». Dentro la camera ci sono un letto, alcuni mobili e un bagno privato. «Anche la stanza mi piace molto. Sì, mi trovo molto bene». La mensa è invece al piano terreno. Dalle camere la si raggiunge con l’ascensore, «una comodità che sembra scontata e invece non lo è affatto», chiarisce il minatore, prima di mettersi in fila e salutare i colleghi che sono già seduti. Il loro vociare è diffuso. Il rumore di piatti e bicchieri riempie la sala così come quello di sedie che si spostano. I giovani sono pochissimi e le donne assenti. Anche Angotti ha dei figli, ma nessuno di loro seguirà le orme paterne. «Non è più un mestiere faticosissimo, eppure i giovani sono veramente pochi», dice, seriamente dispiaciuto. Forse anche per questo i minatori che scavano le gallerie di mezza Europa in qualche modo si conoscono tutti come se abitassero in un mondo a parte. Un mondo dove non si può dire che non ci siano polvere, frastuono e caldo. Ma al tempo stesso anche dignitoso, ben pagato e unito da un non comune senso di fratellanza.