La Lega da Pontida sino al Ticino
La verità è che all’inizio, nei primi anni Ottanta, i partiti storici, e con loro i principali politologi, non ci avevano capito nulla. Un po’ come accaduto in Ticino con Giuliano Bignasca, in Italia la Lega Nord era nata tra sorrisetti e battute, accolta con analisi che mettevano in evidenza più gli aspetti folcloristici e le uscite non propriamente eleganti del suo leader, oggi si direbbe fuori dai canoni del «politically correct». Senza capire invece che quel movimento tra feste campestri dove anche l’ammazzacaffè doveva essere della tradizione, magliette verdi, il rito dell’ampolla davanti ai popoli padani, non era «transitorio» ma sarebbe diventato negli anni uno dei più importanti partiti politici di rottura. E oggi il referente, una sfaccettatura della destra conservatrice e populista europea.
Un lavoro cominciato nel 2007
La genesi della Lega come fenomeno politico e sociale, e la sua lunga parabola con il passaggio di testimone tra Umberto Bossi e Matteo Salvini, viene tratteggiata in un saggio - La Lega. Una storia, edito da Carocci editore - scritto da Paolo Barcella, docente di storia contemporanea all’Università di Bergamo capace di andare in profondità con rigore scientifico, raccogliendo note, interviste, libri, documenti d’archivio e testimonianze dal 2007 sino al 2022. Ed è forse la prima volta che la Lega viene osservata da una prospettiva storica basata sui fatti, sulle tappe politiche (dal 1983 quando Bossi si presentò per la prima volta alle elezioni nel collegio Como-Sondrio-Varese senza successo), più che sulle ipotesi o solo sugli aspetti politici.
Paolo Barcella parte dal nodo che ha provocato una brusca svolta: la politica immigratoria che è stata gestita male producendo un sentimento di ostilità anche tra coloro che erano stati protagonisti di queste dinamiche, cioè gli ex emigrati italiani, che vedevano male gli stranieri arrivati in condizioni più vantaggiose rispetto alle loro che inizialmente venivano considerati «lavoratori ospiti» e che avevano fatto fatica a salire sulla scala sociale. «I partiti storici – spiega Barcella – e in particolare quelli di sinistra, hanno letto questo nuovo fenomeno con le lenti dell’emigrazione storica, cioè la libertà per la gente di poter andare a cercare lavoro dove c’era il lavoro, fosse in America, in Germania o in Svizzera, e con l’obiettivo di riconoscere ai migranti italiani diritti economici, politici e sociali nei paesi stranieri. Diritti che, invece, gli ex-migranti italiani non intendevano necessariamente riconoscere a chi arrivava dall’estero: l’immigrazione iniziò a generare tensioni xenofobe nei mondi operai italiani, tanto è vero che, come dimostrano anche studi della Cgil di fine anni Ottanta, cominciarono a votare Lega persino alcuni vecchi elettori del Partito comunista».
Il terreno ideologico e identitario
Su questo aspetto ha fatto leva la prima Lega di Bossi e da qui è partita per costruire «il terreno ideologico di fioritura politica» e una sua precisa identità. L’idea di Bossi era quella di riunire le forze autonomistiche regionali, raggrupparle in macroregioni legate al territorio e creare un’Italia federale. «Bossi - spiega ancora lo storico - ha posto la questione settentrionale come priorità rispetto all’irrisolta questione meridionale. E anche su questo tema è riuscito a parlare a larghi strati di popolazione, mostrando sin da subito una formidabile capacità di interpretare sentimenti popolari».
Da questo punto di vista Bossi, secondo Barcella, è stato un protagonista consapevole della politica, svelto e con grande capacità di adattamento al momento storico. Mentre Salvini, il suo successore più «costruito» e meno genuino, è stato un pioniere nell’uso dei social, cogliendo le nuove possibilità offerte dalla comunicazione per arrivare ovunque («Bossi negli anni Ottanta non aveva questi mezzi e distribuiva i volantini paese per paese usando la sua auto»). Pur non avendo la stessa capacità di elaborazione del Senatùr, Salvini sfruttando il web ha sprovincializzato la Lega uscendo dai confini del nord per posizionarsi in un’area di destra securitaria e populista.
Le analogie tra Ticino e Nord Italia
Nel suo saggio Paolo Barcella prende in considerazione anche la Lega dei ticinesi. «Diciamo - fa notare - che la prima analogia è quella della rivendicazione verso il centro politico. Bignasca guardava a Berna come realtà ostile al Ticino, Bossi guardava a Roma per gli stessi motivi». E tuttavia, fa notare ancora Barcella, «la Lega di Bignasca ha agito in un Paese come la Svizzera che ha un federalismo compiuto e consolidato storicamente mentre l’Italia resta spaccata in due». Il secondo punto di contatto, almeno inizialmente, «è il mercato del lavoro con la richiesta di regole stringenti e limitazioni per chi arriva da fuori». Quest’ultima rivendicazione ha tuttavia creato una rottura con la crescita dei frontalieri giunti dalla Lombardia, tanti elettori di Bossi, che «rubano il lavoro ai ticinesi», come ha detto più volte Bignasca. I due movimenti, poi, si sono sempre mossi «su scenari differenti. Il Ticino con 350mila abitanti e una capacità contrattuale verso Berna per le sue rivendicazioni ridotta mentre la Lega solo nella Lombardia poteva contare su 10 milioni di abitanti».
Poi c’è l’oggi con la Lega Nord che sfida la nuova destra italiana di Giorgia Meloni e si è ritagliata un suo spazio cercando alleanze anche nei movimenti dell’ultradestra europea, mentre la Lega dei ticinesi dopo la scomparsa di Giuliano Bignasca, l’ultimo grande e controverso leader, capace di tenere a distanza di sicurezza l’UDC, non è riuscita a rinnovarsi né a esprimere una nuova classe dirigente.
«La verità - conclude Barcella - è che Bossi ha saputo abilmente, pur con tutti i limiti e gli aspetti grossolani, trarre vantaggio dalla storia e da quanto stava accadendo nei momenti cruciali di fine secolo. A partire dal crollo del sistema della Prima Repubblica iniziata nel 1992».