La lunga rinascita del Kosovo
È difficile non vedere il fumo scuro della centrale a carbone che volteggia sopra Pristina. Anche perché prende il naso. Ma la capitale del Kosovo non può fare a meno di quell’elettricità. Così come il Kosovo non può fare a meno della KFOR, la forza militare internazionale guidata dalla NATO, che da 25 anni, dalla fine del conflitto tra milizie serbe e kosovare, cerca di garantire la pace in questo lembo di terra che è sempre a pronto a incendiarsi come una polveriera. Perché oggi il Kosovo è abitato da sei etnie differenti, ma sono principalmente due, quella albanese e quella serba, sempre le stesse due, a continuare a farsi la guerra sotto traccia, a scatenarsi per un nonnulla, a esplodere quando meno ce lo si aspetta.
Chiusi gli uffici postali serbi a Nord del Paese
Come l’anno scorso, quando a Zvecan, nel Nord del Paese, nel tentativo di impedire l’insediamento dei sindaci kosovari-albanesi eletti, la popolazione locale ha lanciato bombe a mano e molotov riempite di chiodi, petardi e pietre contro le forze militari della KFOR provocando oltre 40 feriti. E quest’anno non va meglio. Perché, anche se non si è arrivati a episodi di violenza, a luglio il governo kosovaro ha chiuso i distributori di benzina serbi a Nord del Paese e ad agosto, quindi pochi giorni fa, ha chiuso anche tutti gli uffici postali serbi, sempre nella stessa area a prevalenza serba, contraddicendo gli accordi presi precedentemente con il governo di Belgrado. Che prevedono il rispetto delle minoranze. Anche se queste 25 anni fa sono state il motivo di una guerra che ha fatto migliaia di vittime, da una parte e dall’altra. Oltre ad aver provocato una diaspora tra la popolazione albanese. Fuggita prevalentemente in Germania e in Svizzera. Si calcola che siano stati almeno 1 milione i kosovari che hanno lasciato il Paese nei mesi successivi alla guerra. Oggi molti di loro ogni estate tornano a casa. E affollano le strade di Pristina con auto targate svizzera e germania.
E anche le banche (sempre serbe)
Le immagini degli scontri di Zvecan riempiono una parete nel campo base della Svizzera a Pristina. Fanno parte di un’insieme di informazioni che la KFOR raccoglie e analizza. Per seguire tutto quello che è successo e sta succedento nel Paese. Come il fatto che hanno chiuso anche le banche serbe siccome il dinaro non è più una valuta nazionale in Kosovo. O che si nota una volontà del governo di Pristina di spingere i serbi sempre più a Nord senza che la popolazione serba abbia per il momento reagito o abbia scatenato ondate di protesta.
Una polveriera pronta a esplodere in qualsiasi momento. È ancora questo oggi il Kosovo. Un Paese in cui l’odio verso l’altro, verso il nemico di sempre, non serpeggia per strada, non si scatena a ogni piè sospinto. Ma come una formica continua a lavorare sottotono, quasi nell’ombra, incessantemente.
Il modello svizzero
«Siamo qui per portare la pace ed è questa la cosa più giusta e importante». Il tenente colonello Fabian è vicecomandante del contingente svizzero che trova posto a Camp Film City a Pristina, il quartiere generale della KFOR in Kosovo. Una base, quella svizzera, composta da tre piani di container, un ristorante e un team medico e infermieristico. È qui che ogni anno si danno il cambio circa 400 militari svizzeri. Impegnati come sostiene il loro vicecomandante, militare di carriera, a sostenere il processo di pace. Non una cosa semplice. Che all’esercito svizzero richiede l’uso della sua caratteristica di sempre: l’affidabilità unita all’essere un esercito di milizia, quindi formato anche da civili. «Civili che con la loro esperienza portano un valore aggiunto incredibile a contesti come questi», sottolinea con orgoglio il vicecomandante. Perché garantire la pace in ottica svizzera significa saper dialogare e intercedere con la popolazione portando con sé quel multiculturalismo tipicamente svizzero. Un modo di porsi aperto al dialogo e alla diplomazia anche là dove possono scatenarsi gli istinti più bassi. «Per quello siamo apprezzati, per quello con noi la popolazione del Kosovo parla».
I radicalizzati che preoccupano
Non una questione da poco, se ci si pensa, in un luogo dove l’importante sembra sferrare un colpo basso dietro l’altro al nemico di sempre. Certo, le insidie non mancano. Perché, pur non essendo il Kosovo un Paese di terroristi islamici gli indicatori dicono che gli integralisti si stanno riorganizzando per avere più potere. Si tratta di alcuni individui che si sospetta siano ancora radicalizzati e possano avere intenzione di unirsi o reclutare per i loro ex gruppi. Negli anni tra il 2011 e il 2015 sono stati in 200-400 a unirsi allo Stato Islamico. Non tutti sono tornati vivi. Quelli che sono stati arrestati sono stati rilasciati quest’anno. Sono loro a destare preoccupazione nel Paese.
Il ruolo della KFOR
Venticinque anni dopo la guerra e l’intervento della NATO il Kosovo non è dunque ancora un Paese come gli altri. Non soltanto perché è guardato a vista dalle 27 Nazioni che compongono la KFOR e che in questo lembo di terra si impegnano militarmente a garantire la pace, il buon svolgimento della democrazia, il rispetto dei diritti umani e la sicurezza per tutti, kosovari e serbi. Ma anche e soprattutto per le sue pecularietà che rendono questo pezza di terra, lontano 1.600 chilometri dalla Svizzera, uno di quei luoghi al mondo in cui per secoli si sono soffiati nazionalismi e propagate rivendicazioni etniche. Ma anche un Paese che nel 1999 l’Occidente, seppur diviso, ha deciso di difendere prima bombardando la Serbia, infine insediandosi militarmente. Fino a oggi.
Il campo di Film City
Nella base di Film City è tutto un vociare e un via vai di jeep e militari. Ogni Nazione ha il suo piccolo campo base all’interno dell’area protetta. Con le bandiere che sventolano sopra i tetti. Sembra tutto normale. E così è. Anche se qui a Film City, questo il nome del campo principale della KFOR a Pristina, prima del filo spinato che avvolge tutto il perimetro dell’area, c’erano degli studi cinematografici jugoslavi. Oggi è tutto scomparso. Al loro posto ci sono i militari. La cui presenza ha fatto nascere, questa volta fuori dal perimetro, anche esercizi pubblici occidentali come Burger King e KFC, oltre che tutta una serie di alberghi. In realtà è tutta Pristina a sembrare un cantiere. Nuovi palazzi stanno sorgendo un po’ ovunque. E così la skyline della città oggi è costellata di gru. Che di notte si illuminano.
Sul piazzale del campo della Swisscoy, in faccia ai container che ospitano i dormitori e gli uffici, spicca una casa in legno che starebbe bene in montagna. Non è lì per caso. Così come non è un caso che all’interno sia stato ricreato un ristorante che si rifà a un tipico chalet svizzero. Viene chiamata «Swiss House». E come dice il nome i soldati qui possono sentirsi quasi a casa. Non soltanto per l’aspetto (all’esterno, su una parete campeggia un orologio delle FFS), ma soprattutto per la cucina. Visto che i militari possono sentirsi un po’ più a casa gustandosi una fondue o una raclette oltre al classico rumpsteak. Una specialità di carne che piace non soltanto agli svizzeri ma anche ai militari delle altre Nazioni. Che possono scegliere anche la Rivella per accompagnare i pasti. E per chi non vuole farsi mancare niente a fine pasto c’è anche spazio per i biberli appenzellesi o per il cioccolato Ragusa.