Società

La povertà che non ti immagini

Oggi la precarietà ha assunto forme e dimensioni diverse
© CdT / Chiara Zocchetti
Andrea Bertagni
Andrea Bertagni
21.07.2024 06:00

La povertà non è sempre quella che ci si immagina. Può cambiare volto. E fare rima anche con precarietà. «Oggi la povertà ha assunto forme e dimensioni diverse - spiega Stefano Frisoli, direttore di Caritas Ticino, impresa sociale che da sempre ha una mano tesa verso i più fragili e nel suo ultimo rapporto annuale ha lanciato l’allarme proprio sulla povertà -. Non voglio essere frainteso, la situazione non è drammatica e non sta precipitando, ma ci sono prospettive che vanno analizzate con strumenti nuovi adeguati a una realtà che cambia». Anche perché a emergere «negli ultimi anni - continua Frisoli - è una «complessificazione» delle situazioni. Prima avevamo ad esempio la disoccupazione, l’assistenza e l’assicurazione invalidità. Oggi una persona può essere in disoccupazione, parzialmente in assistenza e avere una domanda di assicurazione validità in corso». In transizione. È questa la parola usata oggi per definire chi si trova in sospeso, in molte scarpe, tutte scomode. Perché «basta un reddito leggermente superiore al minimo vitale per non riuscire a coprire tutti i bisogni», continua Frisoli.

Non si sta parlando delle persone che faticano ad arrivare a fine mese e vivono sotto la soglia della povertà, che in Svizzera sono l’8,5% del totale e in Ticino il 14,5%. Soglia che è fissata a 2.279 franchi al mese per le persone sole e a 3.963 per una famiglia di 4 persone. Ma di tutte le altre. Di quelle che non compaiono in nessuna statistica. E che preoccupano tutte quelle imprese sociali, enti e organizzazioni che, come Caritas Ticino sono sul terreno. E quando intervengono nel dibattito pubblico non vogliono fare politica. Ma gettare uno sguardo e a volte, come in questo caso, anche un allarme.

«Il tema è come fare comunità sul disagio perché le azioni applicate fino a oggi, che mirano a corrispondere a un bisogno una misura, non sono più attuali, non sono in grado di rispondere alla complessità delle situazioni, ma anzi, in alcuni casi, le esacerbano, le peggiorano». Serve insomma un cambio di passo. Alla svelta. È questo il grido d’allarme. «Oggi tutte le istituzioni ragionano in modo autonomo, ognuna secondo le proprie regole, strutture e leggi, quando invece occorre una logica sistemica, univoca. Come se non bastasse le istituzioni si stanno richiudendo sempre di più in azioni singole, invece di dare risposte congiunte sui problemi».

Non statistiche ma persone

Per chiarire meglio, Frisoli fa un esempio. «Ogni ufficio, cantonale e comunale, sulla stessa persona apre un incarto diverso. La disoccupazione, l’assistenza e l’assicurazione invalidità quindi, anche se stanno rispondendo a delle azioni su una singola persona, hanno tutti fascicoli differenti. Mi chiedo se questo è normale, ma soprattutto se è funzionale ed efficace all’obiettivo». Frisoli ha ovviamente la risposta. «Non sto dicendo che la raccolta di dati non sia essenziale, al contrario - precisa - servono solo nuovi strumenti di ricerca, così come mancano luoghi di confronto dove mettere insieme tutte le situazioni e cercare di trovare delle ipotesi di sviluppo. Un sistema destrutturato insomma potrebbe far emergere dati meno evidenti su cui costruire strategie possibili».

Non solo statistiche e studi, dunque. Comunque importanti ed eseguiti negli anni a cadenza più o meno regolare da enti e istituzioni. Come quello dello scorso dicembre presentato dal Dipartimento della sanità e della socialità (DSS), dal Dipartimento delle finanze e dell’economia (DFE) e dall’Ufficio di statistica (USTAT) intitolato «Rapporto sociale: statistica sulla povertà in Ticino». Rapporto che conferma come ad esempio sono le economie domestiche composte da un solo adulto con minorenni a rappresentare un segmento della società particolarmente vulnerabile. O come lo studio appena promosso dalla città di Mendrisio e realizzato dalla Scuola universitaria professionale della Svizzera italiana (SUPSI) che da una parte ha avuto lo scopo di aggiornare i regolamenti esistenti delle prestazioni sociali per poter ridisegnare la spesa sociale, dall’altra rendere più accessibili le informazioni esistenti e quindi scovare (e sostenere) chi ha bisogno di aiuti ma oggi non raggiunge le soglie necessarie per ottenerli.

Il Covid uno spartiacque da approfondire

Frisoli è convinto. «Non è comunque facile trovare le soluzioni giuste per affrontare un fenomeno, quello della precarietà e della povertà, che ha cambiato forma e sostanza. Ciò nonostante, bisogna provarci». Prima che sia troppo tardi. Prima che le sbarre metaforiche si trasformino in disagio sempre più crescente, angoscia, disperazione. Anche perché il Covid, Frisoli, ne è sicuro, è stato uno spartiacque. O almeno, «ha accelerato le difficoltà perché si trovava già in crisi». Eppure… «eppure non è stata ancora fatta un’analisi seria e approfondita sulle conseguenze sociali della pandemia. È come se si avesse fatto finta di nulla. Che non fosse successo niente, quando invece così non è». Il direttore di Caritas Ticino non parla a caso. Ha visto, ha sentito, quello che è successo. «Durante il coronavirus abbiamo erogato mezzo milione di franchi a persone che si trovavano senza reddito», sottolinea. Persone che vivevano già in situazioni di precarietà, «magari lavorando a percentuale o su chiamata», che all’improvviso si sono ritrovate con le spalle al muro. «Ma queste persone non hanno smesso di esistere - prosegue Frisoli - alcune di loro sono andate verso altre situazioni difficili, mentre altre hanno ripreso e per fortuna a seguire dinamiche un po’ più positive».

Una riflessione più matura

Positive, ma non definitive. Perché «i working poor che lavorano al 100% non riescono comunque neanche oggi a coprire tutti i costi. Stessa cosa chi ha un salario di 3.200 franchi, quindi in regola, ma comunque che non consente di arrivare con facilità alla fine del mese», afferma Frisoli. Da qui la convinzione che «un welfare come il nostro forse meriterebbe una riflessione e una maturità più ampie - riprende il direttore di Caritas Ticino -. Ne è la prova nel modo in cui si ragiona con gli obiettivi di pareggio di bilancio dello Stato. Non si possono effettuare tagli in maniera indiscriminata senza guardare alle conseguenze sui servizi erogati a favore della popolazione». Serve insomma una visione più ampia e profonda. «Ma anche dei rapporti diversi tra Stato e operatori privati, che oggi sono in un piano subalterno. Tutto ciò porterebbe dei benefici alle persone».

Nuovi spazi di manovra. È questa una delle richieste che arriva da chi sta sul terreno e si confronta tutti i giorni con situazioni al limite. «Il tema fondamentale non è la presa a carico. Le persone non sono dei sacchi di patate da mettere sulle spalle. Tanto più che ogni persona che esce da uno stato di precarietà costa meno a tutto il sistema». Da qui l’invito. «Servirebbero una sorta di Stati generali per rimettere al centro il bene comune». Non un’operazione fine a sé stessa dunque. Ma con un obiettivo preciso. «Servirebbe andare al di là degli steccati dei partiti e dei singoli studi e ricerche che di volta in volta vengono eseguiti. Serve fare rete, ma sul serio. L’input potrebbe arrivare dalla società civile e a essere coinvolti dovrebbero essere tutti gli attori in gioco, dai privati alle imprese, passando ovviamente dalle Istituzioni. Così facendo, il Ticino potrebbe davvero diventare un laboratorio interessante. Nel nostro piccolo è quello che del resto stiamo facendo. Stiamo facendo rete con tutti quelli che pensano che abbia senso».

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