La prima volta di Santiago Calatrava in Val Calanca
La sua presenza, ieri, sabato 17 giugno, ad Augio in valle Calanca, doveva essere una sorpresa e invece la sorpresa Santiago Calatrava, architetto di fama mondiale, l’ha regalata ai poco più di cento abitanti di Rossa che si sono riuniti per inaugurare un parco giochi e festeggiare i 40 anni dell’aggregazione. «Sono qui da poche ore e mi sento già a casa. La vostra natura, la vostra accoglienza, il vostro essere svizzeri sono d’esempio per tutto il mondo», ha detto l’archistar prima tra scivoli e altalene, poi in piazza.
Da dove vengono queste parole d’elogio. Perché le ha pronunciate?
«Mia moglie Tina è originaria di Rossa ed è nata in Svizzera, come i nostri quattro figli. Io sono diventato cittadino svizzero per scelta e per ammirazione di questi paesaggi straordinari, ma anche per il senso che si trova in ogni posto di questo Paese realmente sconvolgente».
Perché sconvolgente?
«Per molte ragioni. Innanzitutto perché la Svizzera è un Paese dove il popolo è sovrano. Ma anche per i suoi paesaggi davvero straordinari. Come qui ad Augio, in valle Calanca, dove l’uomo ha abitato per secoli piegandosi alla natura non viceversa come invece è avvenuto altrove. È insomma un’interessante contrapposizione. Ma poi qui è così tutto ancora intatto... A cominciare dai rumori, dalla cascata che sento scorrere alle mie spalle. È una specie di paradiso perduto, dove la natura si vede e si percepisce, un posto talmente rilassante che dopo un paio d’ore si ha l’impressione di esserci da un giorno interno. E questa è una grande virtù».
Le era già capitato d’inaugurare un parco giochi?
«No, non mi era mai capitato, ma è una cosa molta bella, perché in realtà sono i bambini i veri protagonisti, così innocenti e incoscienti. Sono loro che riceveranno i nostri esiti ma anche le nostre sconfitte, le cose che non abbiamo risolto bene così come quelle che abbiamo risolto. È molto importante pensare soprattutto in termini architettonici che la gioventù ci sopravvive e che l’architettura è dedicata a loro. Ma questo parco giochi parla anche di altro».
Di cosa?
«Di vitalità, perché qui a Rossa avrebbero potuto fare chissà quali altri cose e invece… invece hanno fatto proprio un parco giochi. Questo vuole dire che c’è una grande fiducia nel fatto che ci saranno ancora delle famiglie, che nasceranno dei bambini, che cresceranno in un ambiente straordinario e poi se ne andranno nel mondo portando nel cuore per sempre quello che la valle gli ha dato. Questa la trovo una bellissima tradizione secolare che continua a vivere e che viene tramandata».
Perché durante l’inaugurazione ha disegnato una colomba della pace sulla fotografia appesa allo scivolo che ritrae il World Trade Center Transportation Hub, la stazione metropolitana realizzata da lei a New York?
«Le circostanze della vita mi hanno portato a New York alcuni mesi prima dell’attacco alle Torri Gemelle dell’11 settembre 2001. Dopo l’attentato sono stato coinvolto nella ricostruzione di Ground Zero. C’erano ancora le macerie. Il giorno in cui ho presentato al pubblico il mio progetto della nuova stazione della metropolitana nel cortile delle palme del World Financial Center ho mostrato alcune fotografie di bambini di un asilo nido di New York. Le ho mostrate e ho detto che quello che quello che volevo fare era dedicato a loro, ai bambini».
Perché ai bambini?
«Perché non erano coscienti di quello che era appena capitato con l’11 settembre 2001, non conoscevano i simboli dietro quell’attacco, non avevano provato lo shock immenso di un intero Paese per un fatto così terribile. Per rispondere alla sua domanda, disegnare una colomba è come disegnare un bambino che apre le mani. Del resto anche la stazione della metropolitana che ho realizzato a Ground Zero ha un senso di una colomba. Curiosamente se si guarda il National September 11 Memorial & Museum che è stato disegnato successivamente da Michael Arad si vede l’acqua delle piscine cadere verso un fondo scuro che rappresenta la tragicità. La mia stazione si apre invece verso l’alto in segno di speranza. Trovo molto interessante questa contrapposizione. Ma c’è anche un altro dettaglio che vorrei sottolineare perché simbolico».
Prego.
«La stazione della metropolitana è orientata leggermente fuori dal tracciato di New York e la luce entrando nell’edificio compie un cammino... di luce. Questo avviene alle 9.28 di ogni 11 settembre, il momento del primo attacco alle Torri Gemelle, in cui persero la vita già migliaia di persone».
Le maggior parte delle sue opere, se non tutte, sono urbane. Eppure lei ha sottolineato che la valle Calanca è un paradiso, dove è stata la natura a piegare l’uomo e non viceversa.
«Costruire qualcosa di artificiale in natura è una sfida e questi muri, questi rustici così apparentemente semplici ma anche straordinari, danno molti insegnamenti. Questo è un posto dove imparare. Dove imparare come fare architettura in armonia con la natura. C’è poi da sottolineare un altro fatto. Ed è che è la natura a ispirarmi. Fiori, sassi, animali, tutto mi ispira. Ma anche l’essere umano, il suo stare al mondo, i suoi gesti, i suoi occhi».
Cos’è l’architettura per lei? Tecnica o arte?
«Nella parola architetto c’è già il significato del nostro lavoro. Perché architetto significa operaio che comanda altri operai. Ma è anche una fusione tra arte e tecnica. Quindi un architetto è un operaio che guida altri operai cercando di fare arte, se è possibile. Perché l’arte è quella cosa capace di emozionare. Come mi è ad esempio accaduto nella cattedrale di Chartres in cui mi è capitato di entrare in una giornata piovosa. Le sue pietre umide sembravano vive. È stata un’esperienza straordinaria. Ma fare architettura è anche realizzare edifici che ci permettono di stare bene».
Quindi più sentimento che ragione.
«Essere a proprio agio con l’architettura non ha niente a che fare con l’intelletto o la ragione. È una questione di sentimento, di stare bene, di accoglienza. Deve esserci una simbiosi. È un po’ come capita quando guardiamo un quadro o una scultura. Deve scattarci dentro qualcosa».
A pochi chilometri da Rossa, a Bissone, nel 1599 nasceva Francesco Borromini, architetto considerato «di rottura» e per questo a volte paragonato a lei.
«Borromini ha dato una grande lezione all’architettura. Una lezione che definirei di attitudine. Dobbiamo ricordarci che quando arriva a Roma riceve l’incarico di continuare il lavoro di Carlo Maderno, anche lui ticinese, alla Chiesa di Sant’Ivo alla Sapienza, che è meravigliosa ed è veramente un punto di riferimento nel mondo. In quel momento Borromini si trova davanti a due giganti che sono il Brunelleschi e Michelangelo. Ciò nonostante raccoglie la sfida usando le forze dell’architettura che sono la luce, la materia e la geometria. Borromini riesce a ordinare la materia con geometrie che spesso sono enormemente difficili. Talmente difficili che sarebbe complicato riprodurle anche oggi con i computer».
Come gli architetti del passato, anche lei si sposta da una parte all’altra del mondo.
«È vero gli architetti di oggi sono come quelli del passato. Ma sono convinto che questo spostarsi è un bene, perché si fanno importanti esperienze e conoscenze. Spostarsi significa conoscere posti e persone nuovi e questo ti porta ad aprire gli occhi e le orecchie, ad ascoltare e a vedere che sono una cosa fondamentale nel nostro lavoro, visto che dobbiamo «canalizzare» quello che vediamo e sentiamo in un progetto architettonico. Per questo io dico spesso di sentirmi come una levatrice. Solo che al posto dei bambini cerco di tirare fuori la cultura che incontro per trasformarla in progetti».
A proposito del computer, è un bene o un male per l’architettura di oggi?
«Io che ho una certa età continuo a lavorare a mano. Faccio schizzi quasi tutti i giorni. Come quando ho iniziato. Con la stessa passione con cui ho iniziato. Anche se all’inizio, dopo la scuola a Zurigo, mi è capitato di fare soprattutto cose piccole, come i balconi delle case. Balconi che facevo con la stessa passione di oggi. Ma al di là di questo, con me lavorano diverse generazioni e il computer lo adoperiamo dal primo giorno e con grande intensità perché è uno strumento del nostro tempo».
Tutto bene, quindi?
«Sì e no. Durante la sua formazione un architetto passa molto tempo a impadronirsi dell’uso del computer così resta poco tempo per conoscere altri aspetti che la scuola potrebbe fornire Oggi è come se per essere architetti bisogna prima imparare a pilotare un aereo di linea… Però il computer è assolutamente fondamentale. Perché ci permette visualizzazioni che mai avremmo potuto fare, come anche introspezioni negli edifici e gli aspetti formali inseriti in un paesaggio, tutto questo molto velocemente. L’ideale sarebbe rimanere a cavallo di entrambi».
Poco fa ha sottolineato come sia importante nel suo mestiere aprire occhi e orecchie nei confronti del committente. Non deve essere sempre semplice.
«Serve molta umiltà. Ma bisogna riuscire anche a sviluppare una certa sensibilità per le cose di tutti i giorni. Se riusciamo a entrare nello stato d’animo giusto riusciamo ad accorgerci di come tutto quello che ci circonda sia straordinario. Magari una volta è un dettaglio. Magari un’altra è una cascata, un rumore. Bisogna insomma riuscire a guardare e a vedere nello stesso tempo».