Cibo & Vino

La signora in rosso ha colpito ancora

A tu per tu con Marie-Thérèse Chappaz il cui vino vallesano ha battuto ogni record svizzero
Chappaz nella sua vigna a Fully. © KEYSTONE / Olivier Maire

Marie-Thérèse Chappaz, la signora del vino svizzero, è una donna minuta, mite e gentile, che ammira Papa Francesco, la montagna, e odia i telefonini (l’app che usa di più è quella di MeteoSvizzera). Una contadina colta (ama molto leggere) più a suo agio nelle sue amate vigne, che alle prese con giornali e tv che in questi giorni hanno preso d’assalto la sua cantina sulle alture di Fully, nel distretto di Martigny. Undici ettari, in parte piantati oltre cento anni fa, dai quali cava via vini che hanno segnato la storia dell’enologia elvetica. Una settimana fa il suo Grain par Grain Petite Arvine 2020, un bianco dolce prodotto in poche bottiglie, ha ottenuto 100 punti su 100 nella classifica annuale di Wine Advocate, la rivista «bibbia» degli amanti del vino creata da Robert Parker. È la prima volta che un’etichetta svizzera raggiunge questo traguardo.

In realtà Chappaz ci era andata vicino negli scorsi anni, arrivando a toccare 99 punti su 100. Ma stavolta il giornalista e responsabile per la Svizzera di Robert Parker, Stephan Reinhardt, dopo avere degustato più di 280 vini svizzeri di 67 viticoltori (30 della Svizzera tedesca, 14 del Vallese, 8 del Ticino, 9 della regione dei Tre Laghi, 5 del canton Vaud e 1 da Ginevra) l’ha premiata.

Non è un’esperta di marketing

«Chappaz - racconta Reinhardt raggiunto nel suo studio nella campagna tedesca - è una su tutti. Non è l’unica produttrice eccellente, ma di sicuro è quella più di punta ed è molto tipica. Non parla inglese, come molti produttori della zona, è una vera contadina e non un’esperta di marketing. A volte è persino difficile raggiungerla se non andando a incontrarla di persona. La sua funzione è comunque importante: avere dei vini iconici giova a tutta la regione. La seguo da diversi anni e sono molto più impressionato oggi rispetto a quando ho iniziato ad assaggiare i suoi vini, 12 anni fa. Ha migliorato tantissimo in poco tempo, specialmente sui rossi».

Chappaz nella sua cantina. © Keystone
Chappaz nella sua cantina. © Keystone

Marie-Thérèse Chappaz in questi giorni ha continuato la sua vita di sempre. In mezzo ai filari, alla vigna che ha rilevato dalla famiglia nel 1987 inaugurando la sua prima annata l’anno successivo e diventando madre nel 1989. E dire che a 18 anni voleva fare l’ostetrica. Salvo poi innamorarsi di botti, cantine e vigne. «Spero - racconta ridendo alla Domenica nella sua tenuta di Fully - che questa sia l’ultima intervista, perché in questi giorni sono veramente bombardata. Ho ricevuto infinite richieste. Io, come dico sempre, non cerco visibilità, ma sono contenta di questo punteggio assegnato da Wine Advocate perché credo vada a vantaggio di tutto il Vallese, che merita di essere valorizzato perché è un luogo ancora puro».

Inoltre, secondo l’imprenditrice, «questo vino si merita il riconoscimento massimo. Altri miei vini no, ma questo sì. Ho ricevuto complimenti da tanti, per fortuna non solo dai giornalisti, ma anche dalla gente di qui, ho oltre 300 messaggi sul telefonino e appena avrò un momento andrò a guardarli e a ringraziare».

Una vetrina internazionale

Ora la sua speranza è che anche altri vini svizzeri possano in qualche modo essere inseriti in una vetrina internazionale come quella di Robert Parker. «È vero che i vini svizzeri sono poco esportati. È un peccato - dice - perché abbiamo produttori eccellenti che meriterebbero di essere conosciuti. Ma per questo bisogna lavorare duro. Secondo me alla base di questa difficoltà a farsi conoscere c’è anche la questione del prezzo. Il nostro è un mercato che è rimasto a lungo chiuso, e in cui i produttori sono ancora abituati a lavorare direttamente per la clientela privata e a fare i prezzi di conseguenza. Produrre per l’export vuol dire rivolgersi ad intermediari e dovere abbassare i costi per i consumatori, cosa che per la maggior parte dei piccoli produttori elvetici sarebbe impossibile».

Chappaz pian piano si è convinta che il vino va promosso, seguito anche all’estero. E anche se solo una piccola parte della sua produzione finisce oltre i confini svizzeri (ma dopo il premio questa percentuale aumenterà sicuramente), ha cominciato a presentarsi alle fiere specializzate dove ci sono importatori e grossisti che arrivano dagli Usa al Giappone.

Però il suo pallino è sempre stato la qualità e diversi anni fa ha imboccato la strada biodinamica. L’idea di abbracciare, seppure in maniera molto laica, questo tipo di coltivazione (non condivisa da tutti nel mondo dell’enologia) le è venuta dopo una visita nella cantina di Michel Chapoutier, a Tain-l’Hermitage, sulla riva sinistra del Rodano a un’ora da Lione, uno dei vignaioli francesi che per primo, nel 1991, si è interessato a questo metodo di coltivazione che poggia le sue basi nelle ricerche dello scienziato Rudolf Steiner, che tra i primi pensò al ceppo della vite non come pianta isolata ma come appartenente a un ecosistema che cresce seguendo le caratteristiche del terreno, le fasi lunari, l’energia fornita dalla luce.

«Però voglio precisare: non sono una fondamentalista. Certo, sono assolutamente contraria ai pesticidi sintetici, ma ho scelto la biodinamica più per un rispetto assoluto verso l’ambiente e per le generazioni future. La applico con convinzione ma la combino con le tecniche vitivinicole della tradizione che vengono portate avanti nella nostra famiglia da generazioni. Sono una sostenitrice del buonsenso, del buonsenso contadino». Lei, nelle sue sperimentazioni, ha provato a dare energia al terreno attraverso compost biologici, uno in particolare impedisce la crescita dell’erba e mantiene umido il terreno.

L'enologo Reinhardt durante un assaggio.
L'enologo Reinhardt durante un assaggio.

«Spero in una fondazione»

Ci vuole molto impegno se si vogliono evitare le scorciatoie di diserbanti e altri prodotti chimici, come i pesticidi. «Quanto lavoro? Dipende dai periodi. In quelli più intensi - racconta Marie-Thérèse Chappaz - anche 14 ore al giorno. Ormai ho 63 anni. Ma ho figli ancora giovani, spero che almeno uno di loro decida di seguire questa strada e portare avanti l’attività. Diversamente penso che potrebbe essere costituita una fondazione, oppure una cooperativa. Il vino è un patrimonio della comunità, fa parte della storia del territorio ed è bello che la comunità in qualche modo si faccia carico di valorizzarlo».

Valorizzarlo come ha fatto lei, accompagnata anche da una particolarissima storia personale e familiare. Suo prozio era Maurizio Troillet politico visionario, avvocato e banchiere, parlamentare a Berna e a lungo Consigliere di Stato (dal 1913 al 1953), oltre che vignaiolo. Suo zio era lo scrittore e poeta Maurice Chappaz, tra l’altro vincitore del Grand Prix Schiller, nel 1997. «Le mie vigne - commenta Marie-Thérèse Chappaz - sono costituite in gran parte ancora da quelle piantate dal mio prozio Maurice Troillet nel 1922 e poi preservate e portate avanti da mio zio Maurice Chappaz nel corso del 1900».

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