La tragedia dimenticata del Nagorno Karabakh
Tra due settimane, il 27 febbraio, manifesteranno davanti al palazzo delle Nazioni Unite a Ginevra. Manifesteranno perché 120 mila persone, tra cui 30 mila minorenni, da ormai due mesi e in pieno inverno non hanno da mangiare, sono senza luce, gas, acqua, medicine, non possono lavorare, studiare, vivere. Sono prigioniere nel Nagorno Karabakh a causa dell’Azerbaijan che ha chiuso il corridoio di Lachin, una striscia di terra che mette in comunicazione il Nagorno Karabakh con l’Armenia. Una striscia vitale per chi vive in Nagorno Karabakh perché dal corridoio passa tutto il necessario per vivere, appunto.
L’Azerbaijan accusa l’Armenia di usare il corridoio per trasportare truppe e mine da piazzare in territorio azero. Da parte sua l’Armenia denuncia l’occupazione dei suoi territori da parte dell’Azerbaijan. In mezzo 120 mila persone, tra cui 30 mila minorenni, che non ce la fanno più e stanno vivendo sulla loro pelle l’ennesimo atto di una guerra lunga oltre trent’anni tra Azerbaijan e Armenia per il possesso del Karabakh. Una guerra, una tragedia dimenticata. Che non riempie le pagine dei giornali. Non va in prima pagina. Ma che ha causato fino a oggi quasi 40 mila morti e oltre un milione di sfollati.
Sarkis Shahinian, segretario generale del gruppo parlamentare Svizzera-Armenia, il 27 febbraio parteciperà alla manifestazione. E come lui molti altri armeni, ONG e politici svizzeri. Perché il blocco del corridoio di Lachin «deve essere tolto subito, va subito garantito il passaggio - spiega - e se chi dovrebbe garantire la sicurezza di quella striscia di terra, ovvero la Russia, non lo fa, allora devono intervenire le Nazioni Unite, nel cui Consiglio di sicurezza dallo scorso 1° gennaio siede anche la Svizzera».
Le condanne
A condannare l’occupazione del corridoio sono stati oggi Francia, Germania e Stati Uniti. Il Tribunale internazionale dell’Aia da parte sua ha aperto un fascicolo sulla grave crisi in corso. Mentre la Commissione della politica estera del Consiglio degli Stati, preoccupata per la situazione umanitaria ha inviato una lettera al Consiglio federale in cui condanna le violazioni del diritto internazionale derivanti dal blocco del corridoio che si protrae dal 12 dicembre 2022.
Nello scritto «la Commissione - riprende Shahinian - chiede in particolare al Consiglio federale di intervenire presso il Consiglio di sicurezza dell’ONU, per ottenere da un lato la riapertura del corridoio di Lachin e la cessazione delle ostilità e, dall’altro, l’organizzazione di un ponte aereo umanitario». Appena tornata dalla regione, anche l’ex consigliera federale, Micheline Calmy-Rey ha lanciato l’allarme. «Bisogna che la Svizzera si faccia sentire subito presso le Nazioni unite», ha detto.
Agire prima che sia troppo tardi. Tra due settimane, il 27 febbraio, chi manifesterà davanti al palazzo delle Nazioni Unite a Ginevra, chiederà proprio questo. Con la speranza di accendere i riflettori su questa guerra dimenticata. «Oggi si parla quasi sempre e solo di Ucraina ed è giusto - sottolinea - Shahinian - però non riesco a capire come mai da parte dei media ma soprattutto della politica non si arrivi a capire il significato dell’epurazione etnica che sta avvenendo nel Karabakh, che è l’ultimo bastione cristiano e democratico dell’Occidente».
La ferita aperta
Epurazione etnica. Shahinian non usa questa forte espressione a caso. Al contrario. Tra il 1915 e il 1923 furono oltre un milione gli armeni uccisi dai turchi, in quello che è passato alla storia come genocidio armeno. Una ferita antica. Mai sanata. Anche perché, secondo il segretario generale del gruppo parlamentare Svizzera-Armenia, anche Azerbaijan starebbe portando avanti «una costante ingegneria demografica, tanto che il padre dell’attuale presidente dell’Azerbaijan, Heydar Aliyev aveva detto che tra i suoi obiettivi c’era quello di ridurre l’elemento armeno».
Altrettanto certe «sono le continue aggressioni militari all’Armenia da parte dell’Azerbaijan che sono delle palesi violazioni dell’accordo trilaterale di cessate il fuoco, sottoscritto il 9 novembre 2020 dall’Armenia, da llo stesso Azerbaijan e della Russia». Quella stessaRussia che dovrebbe vigilare sul rispetto dell’accordo e che oggi sembra volgere lo sguardo da un’altra parte. Da qui il grido d’aiuto del popolo armeno. Che farà sentire la sua voce anche tra due settimane, a Ginevra.