La voce «sporca» di Plinio Martini
È per (quasi) tutti una voce. Ma in realtà anche un volto, per chi l’ha vista e ascoltata sul palco (e non sono pochi) nell’interpretare Gori, il giovane protagonista del romanzo Il fondo del sacco di Plinio Martini. Uno spettacolo che da anni non porta in scena per mezzo Ticino «solo» le vicende del celebre giovane della Val Bavona abbagliato come molti all’inizio del secolo scorso dal sogno americano. Che decide di lasciare tutto per cercar fortuna in California. Ma anche le doti e la voce, appunto, di Margherita Saltamacchia, attrice, speaker, doppiatrice e regista ligure di 39 anni (tra pochi giorni) trapiantata da più di dieci anni a Bellinzona. Un volto, ma soprattutto una voce, la sua, inconfondibile, ruvida e al tempo stesso spontanea. «Sporca, dicono che ho la voce sporca», precisa lei, sorridendo e sorseggiando un caffé in un bar affacciato su piazza Indipendenza a Bellinzona.
L’obelisco messo nel 1903 a puntare il cielo e a ricordare l’atto di mediazione di Napoleone del 1803 che sancirà l’indipendenza del Canton Ticino fa ombra solo ai fiori che adornano il monumento. Ma il caldo oggi, un giorno di metà agosto, non è opprimente. E la «capitale» sembra sonnecchiare tranquilla. «Qui mi trovo benissimo - continua Saltamacchia - e pensare che io e mio marito saremmo dovuti rimanere solo un anno e invece...». E invece di anni ne sono passati quattordici. E la volontà è quella di mettere radici.
È un legame ricambiato, quello che lega, appunto, Saltamacchia con Bellinzona e il Ticino. Perché, anche se può sembrare strano in un’epoca come quella attuale dominata dall’immagine e dai social media, c’è ancora chi ama ascoltare una voce che gli racconti qualcosa. Un libro, un dramma, un racconto, una poesia. «La voce è uno strumento bellissimo. Uno strumento che se impari a usare bene è molto sfaccettato. Con la voce si possono fare un sacco di cose - annota -. Si può dare fiato a un topolino minuscolo o a un uomo cattivissimo e malvagio. Nello spettacolo Frankenstein, autoritratto d’autrice, andato in scena nel 2020 al Teatro Sociale di Bellinzona, ad esempio, grazie a un distorsore vocale ero tre persone in una».
Dallo studio del violino al doppiaggio
Incantare e sedurre con la voce però non si improvvisa. Anche se ci sono doti pregresse. Serve studiare, insomma. Non a caso Saltamacchia si è laureata in Drammaturgia teatrale all’Università Statale di Milano. E già molto prima, quando aveva 12 anni, si è iscritta e ha frequentato la scuola «La Quinta Praticabile» del Teatro Instabile di Genova. Segno che il teatro ce l’ha sempre avuto nel sangue, anche se... «anche se da bambina avevo anche la passione per il violino. Ma portare avanti entrambe le cose non era possibile, per cui a un certo punto ho dovuto fare una scelta». Una scelta vincente, a quanto pare. Perché oggi Saltamacchia vive del suo lavoro. Un lavoro che poggia quasi esclusivamente sulla voce.Quasi. Perché in realtà Saltamacchia scrive e dirige i suoi spettacoli, quasi tutti prodotti dal Teatro Sociale di Bellinzona, e collabora con artisti, musicisti e tecnici. In più, presta la sua voce a pubblicità e trasmissioni televisive e radiofoniche, oltre per il teatro di prosa di Rete Due.
Un lavoro a tutto tondo, il suo. Quasi esclusivamente basato sull’aria che attraversa le corde vocali. E che di volta in volta si adatta, si conforma alla tecnica o allo scopo per cui viene impiegato. Il doppiaggio, ad esempio, ha regole tutte sue. Completamente diverse dalla lettura di un racconto o di un libro. Così come sono al tempo stessi differenti le modalità espressive di uno spettacolo teatrale seppur minimale, quasi esclusivamente basato cioè sulla voce. «Il doppiaggio è più una tecnica. Ha i suoi schemi abbastanza rigidi e non lo amo particolarmente, sono sincera - spiega -. Però mi è servito tanto, tantissimo, studiarlo e praticarlo. Diciamo che siccome è un po’ meno creativo per come sono fatta io, mi dà meno». Ancora diverso è calcare un palcoscenico. «C'è più un carattere, più un corpo in scena e non si può prescindere da quello - interviene Saltamacchia - Sul palco posso stare ferma e immobile per due ore a raccontarti qualcosa. Evidentemente la stessa cosa non posso farla solo con la voce e un microfono. Siamo proprio in mondi differenti anche se accomunati dallo stesso strumento».
Eppure... eppure anche se oggi il mondo di Saltamacchia sembra ben definito, in passato non è sempre stato così. O meglio, al suo presente, l’attrice e speaker ci è arrivata quasi per caso. Anzi, no. Ha continuato a seguire le sue passioni e la vita l’ha portata dove l’ha portata ora. «Prima o poi a tutti capita di stilare un bilancio della propria vita. E io, se mi guardo indietro vedo un comun denominatore senza però aver deciso tutto a tavolino. Ho sempre seguito le strade che mi interessavano e oggi sono dove sono».
Sarà anche così, ma intanto oggi Saltamacchia, oltre a dirigere spettacoli teatrali anche di successo, come la pièce Il fondo del sacco, di cui si diceva all’inizio, che da anni colleziona repliche su repliche in tutto il Cantone, ma anche a Coira e a Zurigo, o come l’adattamento teatrale Minotauro, (che ha prodotto anche con la propria compagnia, LaTâche21) che porta in scena la complessità e la forza del racconto di Dürrenmatt, che ha calcato e calcherà palcoscenici importanti (come il LAC di Lugano), porta avanti anche la rassegna teatrale Territori Festival di Bellinzona. Una rassegna frutto di un lavoro comune con il Teatro Sociale Bellinzona e la piattaforma artistica Zona’B, di cui Saltamacchia è una delle anime insieme alla cantante e attrice Raissa Aviles, nata per promuovere la nuova scena indipendente.
Ironia della sorte, tutto è iniziato proprio da lì. Dal Festival appena citato. «Io abitavo a Bellinzona già da sei o sette anni, quando un giorno ho scritto al direttore del Teatro Sociale complimentandomi per la bellezza della manifestazione e al tempo stesso facendomi avanti. Gli ho scritto dicendogli che ero un’attrice e che mi sarebbe piaciuto collaborare. Così, molto ingenuamente. Purtroppo il programma per quell’edizione era già chiuso, ma mi ha dato comunque la possibilità di fare una lettura ad alta voce. Lettura che è andata molto bene. Perché il giorno dopo la piazza si era riempita. Passano due mesi e arriva a propormi la lettura di un libro a teatro, Il fondo del sacco. Oggi sono sette anni che porto in giro lo spettacolo. Si può dire che conosco tutto il libro a memoria».
Leggere non significa però trasformare un libro in un audiolibro. Tutt’altro. «Altrimenti lo spettacolo durerebbe più di un’ora e mezza. Semplicemente, con tutto il rispetto che ho per l’autore, sottolineo e taglio alcuni passaggi. Non cambio mai le parole scritte. Ma non avendo alcun obbligo di leggerlo completamente, ho quella giusta dose di libertà creativa che mi permette di restituire al pubblico l’anima del libro». E a giudicare dal responso si tratta a tutti gli effetti di una libertà azzeccata.