Arte

L’artista che cercò la luce negli infiniti colori che avvolgono la Terra

Ancora oggi, in pochi, troppo pochi conoscono il fascino di uno dei più grandi pittori svizzeri di tutti i tempi: Jean-Étienne Liotard
Un piccolo pastello e guache su pergamena del 1768 è l’omaggio di Étienne Liotard alla sua Ginevra. © ProLitteris Zürich
Paolo Repetto
26.01.2025 18:30

Nel cuore del Settecento, tra lo svolazzante Tiepolo e i nitidissimi Canaletto e Bellotto; tra la musicale eleganza di Watteau e i vapori di cipria di Rosalba Carriera, Boucher e Fragonard, esistono altri grandi pittori. Certo, tutti conoscono le levigate forme neoclassiche; molti hanno visto i bellissimi ritratti di Gainsborough e Reynolds, dove il sovrano magistero della pennellata diviene autonomo tocco e astratta visione; tutti ammiriamo la domestica solennità degli interni di Chardin - nero, bronzo, ottone, variegate trasparenze d’ocra - le sue pentole e le sue massaie, più importanti di qualsiasi re; ma, ancora oggi, in pochi, troppo pochi conoscono il fascino di uno dei più grandi pittori svizzeri di tutti i tempi: Jean-Étienne Liotard (Ginevra, 1702 - 1789).

Un lungo viaggio

Poco più che bambino imparò le compatte precisioni della pittura a smalto; poi approfondì un’altra tecnica apparentemente opposta, quella dei colori a pastello, infine conobbe il più accademico olio, molto usato dai suoi amatissimi pittori fiamminghi. Viaggiò molto: Parigi, Roma, Londra, Costantinopoli (Istanbul), Vienna, molto richiesto da un’aristocrazia che apprezzava i suoi ritratti, fedeli e freschi come un intimo giardino. Amava vestire alla turca, con lunghe e colorate tuniche, e portare una lunga barba patriarcale, un po’ per gioco un po’ per farsi notare. Anziano, si ritirò vicino alla sua Ginevra, dimenticando quasi totalmente i suoi famosi ritratti e concentrandosi sui delicati colori delle nature morte: splendide immagini di frutti, di tazze, dove una nuova coscienza di «non finito» preannuncia le sfaccettate, prismatiche iridescenze di Cézanne.

Un taglio che prelude Matisse

Nell’unico paesaggio che dipinse, un piccolo pastello e guache su pergamena del 1768, Vista dalla casa dell’artista in Ginevra - una magica visione ordita in una seta smaltata - Liotard volle rendere omaggio alle sue origini e alla cosa più importante del mondo: la luce, la luce che genera calore, il calore che dona vita; la luce che compone gli infiniti colori della Terra. Quale ricchezza, quale fascino, quale grazia. Il grigio muretto in primo piano, con alla sinistra il suo discreto, ironico autoritratto, e alla destra l’alta porta marrone in un felice taglio che prelude a Matisse. Poi l’azzurra, trasparente siepe; poi i campi marezzati di verde e giallo e l’ampia distesa del lago, e le strade, i piccoli cavalli, gli alberi e le case in lontananza; poi gli immensi ghiacciai del monte Bianco, il glorioso riflesso della luce tra lo specchio del cielo, l’acqua, e il trasparente rosa delle nuvole: l’intimo vapore dell’invisibile fuoco delle stelle. Distesa, veduta, colore, tempo, un luogo della memoria immortalato da un felice Bonnard del Settecento.

Non amava Rembrandt

Liotard non amava le ombre, e non amava Rembrandt, il più grande minatore delle cave d’ombra, capace di estrarre luccicanti pepite in forma di volti d’oro. Prima i densi colori a smalto, poi, in Turchia, la visione di un Oriente remoto e amico - il vasto sogno di una Cina, mai visitata, ma elaborata in un artificiale ricordo - dove un’arte più semplice e meno colta della nostra, dipingeva le cose, come i grandi pittori fiamminghi, « nettement, proprement et uniment ». Verso la metà del Settecento, Francesco Algarotti gli acquistò forse il suo quadro più bello, sicuramente il suo più famoso: La cioccolataia, ora nella ricchissima pinacoteca di Dresda. Scrisse che era un bellissimo quadro, che sarebbe piaciuto infinitamente ai cinesi, nemici giurati delle ombre; scrisse che l’immagine della ragazza era realizzata «con mezze tinte e con lievissime diminuzioni di luce, di un rilievo stupendo»; scrisse che sembrava «un Holbein a pastello». «Era forse la prima volta che per un dipinto europeo si andavano a cercare, come lontani giudici e amatori, non i rappresentanti della tradizione italiana e olandese, ma quelli di una civiltà pittorica remotissima, separata dall’Europa dalla geografia e dalla storia. Era esistito fin dal Seicento, e ancora sussisteva, il grande sogno orientale della Francia. Era esistito il vecchio sogno persiano di Montesquieu, quello che il grande illuminista definiva la civiltà dell’uccello, della luce, del movimento, del colore, della fantasia, in contrasto con la civiltà dell’elefante, che era quella occidentale, dal passo lento e ritmato nello spazio, con la sua plastica concretezza, legata alla terra dal proprio peso e senza slanci verso l’azzurro del cielo» (Giovanni Macchia).

Quella leggera cuffietta rosa

Verso la pura e netta luce del cielo. Così il mirabile fulcro del quadro, il semplice bicchiere d’acqua sul vassoio ricco di una sovrana trasparenza, e il bianco latteo dell’ampio grembiule, e la leggera cuffietta rosa, e il neutro sfondo chiaro modulato in una vasta gamma di grigi, si compongono in una silenziosa, candida immagine, dove l’Occidente incontra l’Oriente, dove la vasta tradizione del dettaglio fiammingo si sposa all’ampia sintesi dei colori della porcellana cinese. In una inedita impresa tecnica, in cui le vaporose proprietà del pastello, sul fondo rugoso della pergamena, si coagulano in una minerale densità di smalto.

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