Le guide turistiche sono una garanzia, parola di Lonely Planet

È il lontano 1970: due ragazzi australiani si incontrano a Londra, su una panchina di Regent Park, si innamorano e intraprendono un viaggio che cambierà per sempre la loro vita. Nasce la Lonely Planet. All’inizio manuali di viaggio che mandavano «gente strana in posti strani», oggi azienda leader del settore, la Lonely Planet (LP) festeggia i suoi cinquant’anni. Ne parliamo con il direttore della sede italiana, Angelo Pittro.
Cinquant’anni di successi, direttore, come li festeggiate?
«Festeggiamo la ricorrenza con il nostro festival UlisseFest che si terrà a Pesaro dal 13 al 16 luglio, ed è l’unico festival LP nel mondo. Ma siamo anche molto soddisfatti delle vendite record che abbiamo ottenuto finora: i risultati di fine giugno superano quelli del 2019, già eccezionali nel prepandemia. La sede italiana è una delle più importanti al mondo anche in termini di vendite: rappresenta il 50 per cento delle mercato delle guide turistiche in Italia».
Perché un lettore dovrebbe oggi scegliere una Lonely Planet di fronte alle mille offerte che si trovano in libreria e sul web?
«Ancora oggi, nonostante ci siano siti che forniscono informazioni dettagliate e anche valide, le nostre guide continuano ad avere il loro mercato, perché offrono contenuti realizzati da professionisti che si documentano, viaggiano e sanno di cosa parlano: è un riconoscimento del fatto che il lavoro dei giornalisti fa ancora la differenza. Agli inizi, negli anni Settanta, era importante dare informazioni perché di informazioni non ce n’erano, soprattutto pensando a paesi come l’Estremo Oriente. Oggi invece siamo in una situazione opposta: abbiamo troppe informazioni e quindi sentiamo il bisogno di qualcuno che sappia selezionarle per noi. Sul nostro sito tutto il catalogo è disponibile sia in forma cartacea che digitale».
Un tempo i vostri lettori erano i cosiddetti backpacker, con pochi soldi in tasca e la voglia di girare il mondo. A quale pubblico vi rivolgete oggi?
«Le vostre guide sono nate dall’idea di due ragazzi australiani, Tony e Maureen Wheeler, che negli anni Settanta si sono messi in viaggio e hanno trasformato le loro esperienze in guide per giovani con lo zaino in spalla e l’aria un po’ sospetta. Oggi il pubblico è cambiato, ma quello stile si è affermato ed è diventato un marchio. Molti di quegli studenti sono diventati dei professionisti, con la stessa voglia di viaggiare, e con una disponibilità anche maggiore di quella dei giovani di oggi. Sentiamo dunque l’esigenza di rivolgerci a un pubblico molto più vario e articolato».
E quali sono le novità e le risorse per l’aggiornamento?
«Proprio adesso stiamo arrivando in libreria con l’offerta di nuove guide, come Spagna, Bretagna, Normandia, Portogallo, Maiorca e a poco a poco arriveranno tutti i titoli in questa veste nuova. Sono guide piuttosto diverse perché dopo la pandemia abbiamo cominciato una revisione di come vengono scritte, impaginate, organizzate e soprattutto rispetto al tipo di informazione da fornire. Oggi è nomale per qualunque viaggiatore integrare ciò che legge su una guida con ciò che trova sul web: noi ne abbiamo tenuto conto eliminando le informazioni superflue, come potrebbero essere orari e giorni di apertura dei ristoranti o le cartine delle metropolitane ecc., a cui provvedono gli importantissimi QR code a cui siamo tutti abituati. Poi cerchiamo di offrire alternative nelle esperienze sul posto, in tema di opportunità paesaggistiche come parchi, aree di relax e altre iniziative culturali e di vario genere. Ci siamo rinnovati anche dal punto di vista visivo, con una grafica in quadricromia, accattivante, più agile da consultare».
Mi pare che ci sia anche una maggiore attenzione alla sostenibilità dei viaggi. È così?
«Questo è sempre stato un cavallo di battaglia della Lonely Planet: il bisogno di un turismo di minore impatto rispetto a quello di massa. Quello che è cambiato è l’attenzione del pubblico; anche quello più vasto, mainstream diciamo, ha compreso quanto è importante tenere conto dell’impronta che si lascia sul territorio. La nostra politica è quella di offrire proposte ampie e contrastare l’«overtourism», suggerendo ai nostri lettori mete meno battute - mi viene in mente il Bhutan -; per questo abbiamo pubblicato un libro Fuori rotta, che è uscito a maggio con cento destinazioni lontane dai luoghi più frequentati».


A uno che ama i viaggi estremi che cosa consiglierebbe? E a chi vuole un assoluto relax?
«Da un lato l’Himalaya potrebbe essere scelto come itinerario estremo, dall’altro questo è un concetto relativo, perché sappiamo che ci sono le ferrate per salire sulle vette più famose. Per quanto riguarda il relax, in questo momento vediamo alcuni fenomeni molto netti, ad esempio il bisogno di tenersi lontani da luoghi troppo antropizzati. Flussi imponenti scelgono la Giordania o l’Oman, percepite come mete sicure in aree vivaci. Anche il Giappone risveglia un immaginario capace di rispondere alle esigenze di chiunque: sia per chi cerca il riposo in un onsen con vista sui ciliegi in fiore, sia per chi vuole tuffarsi on the road nel traffico di Hokkaido».
Come avviene la scelta delle guide della Lonely Planet Italia?
«La maggior parte dei titoli in italiano sono non solo tradotti ma anche adattati dall’inglese. Poi ci sono anche molti titoli scritti di nostro pugno; ad esempio in questo momento una delle destinazioni più vendute è l’Albania, molto gettonata dai viaggiatori italiani e meno interessante per gli anglosassoni».
C’è dunque un pubblico specifico destinatario di offerte diverse da quelle internazionali?
«La nostra è una casa editrice globale tradotta in tutte le principali lingue del mondo, adatta a un pubblico internazionale. Questo non significa che non vi siano delle specificità, soprattutto in paesi come l’Italia, ma la stessa cosa si può dire per altri paesi europei. Il pubblico italiano si aspetta certi dettagli nella visita alle nostre regioni che i viaggiatori internazionali magari trascurano; e poi c’è una sensibilità particolare per aspetti specifici dell’esperienza, ad esempio per quanto riguarda la ristorazione. In questi casi scegliamo un’edizione scritta da autori italiani».
Non pensa che il nome - Pianeta solitario - abbia contribuito al successo del marchio?
«Il nome è stravagante, frutto, come si sa, di un errore: nella canzone di Joe Cocker che ha ispirato i due fondatori il pianeta era «lovely» non «lonely». Ma il logo indubbiamente ha intercettato la curiosità di un pubblico che soprattutto all’inizio era abbastanza anticonvenzionale e lo ha catturato».