Le inascoltate lezioni della paura

Cinque anni fa, all’improvviso, il mondo è finito in un incubo. Come se si fosse spenta la luce abbiamo osservato increduli città spettrali, capito il senso del silenzio, visto ospedali travolti dall’emergenza.
Abbiamo sentito salire vertiginosamente stress e paura davanti a un nemico invisibile e vigliacco che ci strappava i nostri cari senza la possibilità di un saluto. Solo allora abbiamo toccato con mano gli effetti della globalizzazione, dalla teoria alla pratica: un virus partito dalla Cina ha rivoluzionato il mondo. Cosa è rimasto di quegli anni, che lezione ci lascia quel periodo storico che ha registrato milioni di vittime? Cerchiamo di raccontarlo nel servizio che apre questo numero de La Domenica.
Prima di scrivere abbiamo provato a fare un passo indietro, a ricordare come avevamo vissuto giornate rintanati in casa nel tempo dell’attesa che segnava il TG, quando in tv arrivava puntuale Alain Berset (o il medico cantonale) a fare la conta dei danni. In quei mesi mentre il virus si insediava in tutte le pieghe della società, maturava anche il tempo dei buoni propositi. Ci avevano raccontato che le città sarebbero cambiate, sarebbe arrivata un’urbanistica più vicina all’uomo, i rapporti umani sarebbero migliorati. Invece – ora lo possiamo dire - tutto, o quasi, è rimasto immutato.
Ma questa storia non ha solo aspetti drammatici. Ad esempio, grazie ai progressi della scienza e della ricerca stavolta nel giro di un anno, dal 2019 al 2020, gli scienziati sono riusciti a isolare il virus responsabile, sequenziare il genoma e pubblicare le informazioni. Poi ci hanno subito spiegato che si poteva sconfiggere il virus, come è avvenuto, ma che c’era un prezzo da pagare: fare prevenzione e limitare la libertà di tutti. Tutto questo tuttavia non è bastato, come ha raccontato in una lucida analisi sul Financial Times Yuval Noah Harari, lo storico e filosofo tra i più influenti al mondo, perché c’è stato un «divario tra il successo scientifico e il fallimento politico». In pratica «gli scienziati hanno collaborato a livello globale, mentre i politici tendevano a litigare». Insomma mentre la scienza andava in una sola direzione, i governi si dividevano fra lockdown, sì o no alle mascherine, distanziamento sociale, green pass, immunità di gregge e altre invenzioni. Inoltre, alcuni ministri - anche di Paesi importanti - hanno ceduto alle teorie dei complottisti e spiegato che dopo tutto si trattava di una forma di influenza.
Questo ha portato persone con un livello di cultura vicino alla moquette, che non hanno mai visto una provetta e un microscopio in vita loro, a dare con sciocca disinvoltura dell’imbecille a scienziati che hanno speso la loro vita a studiare come mutano i virus. È la legge dei social, la stessa che oggi fa diventare popolari strambi personaggi che affollano la rete, nuovi eroi che dettano stili e tendenze, orientano i gusti, decretano il successo o l’insuccesso di persone, locali, alberghi, località turistiche, in una centrifuga di opinioni affrettate, superficiali, che hanno intriso d’odio larghi strati della società. Eppure durante il lockdown anche il vicino di casa rompiscatole era diventato un amico, per effetto di una diffusa ondata di solidarietà che rinsaldava i legami. Oggi tutto è tornato come prima (se non peggio), la gente è incattivita, sospettosa. Prendiamo medici e infermieri, eletti eroi all’unanimità con applausi dalle finestre: adesso vengono aggrediti e contestati, e le diagnosi si cercano sul web. Ecco, questa è un’altra lezione - forse la peggiore - che ci lascia la pandemia.