Hockey

Le nozze «di rubino» tra HCAP e HCL

Quaranta stagioni di amore-odio tra le due squadre ticinesi, raccontati da due campioni che celebrarono il «matrimonio», Rogger e Zamberlani
© CdT / Gabriele Putzu
Marco Ortelli
15.09.2024 17:38

Il bianconero Bruno Rogger e il biancoblù Cesare Zamberlani nella stagione 1981-1982 sono stati tra i protagonisti della Serie A ritrovata dalle due squadre ticinesi. Rogger e Zamberlani si sono poi incrociati nella massima serie nella stagione successiva e in quella dell’85-86 - ricordiamo che il leventinese per motivi di studio si trasferì due anni oltre Gottardo a Sierre e a Olten in concomitanza col ritorno in B dell’Ambrì. A distanza di 42 anni, li abbiamo incontrati nelle loro attuali «arene», uno snack bar a Lugano e un’enoteca a Piotta.

Quanti ricordi, ma anche l’orgoglio di aver vissuto una stagione straordinaria per l’hockey ticinese. Che perdura ancora… dopodomani, quando l’Ambrì di Luca Cereda e il Lugano di Luca Gianinazzi esordiranno nel campionato di National League. Altri tempi, altre piste. «Ho avuto il privilegio di vivere l’esplosione dell’hockey a Lugano», osserva Rogger. «Sono contento della mia carriera - gli fa eco Zamberlani -, mi piacerebbe giocare anche adesso, nell’era del professionismo, per vedere la differenza…». 

Rogger alla Corner Arena.
Rogger alla Corner Arena.

Rogger, 11 stagioni con l'HCL e 420 partite

«Ricordo soprattutto il mio primo derby, alla Valascia, entro in pista per il riscaldamento, già strapiena, pattinavo guardandomi in giro, non ero abituato a vedere così tanti tifosi che cantavano, una festa…». Bruno Rogger rievoca così l’impatto con l’hockey in Ticino. E che dire di quell’ultimo derby della stagione 1981-82 alla Resega, davanti a 9.000 spettatori, che ha sigillato la promozione in A del Lugano in compagnia... dell’Ambrì Piotta? «Nel torneo di promozione-relegazione avevamo fatto una cavalcata, un pareggio e otto vittorie. Aver vinto a Berna e a Zurigo (in A e quindi relegate, ndr) significava che la squadra era pronta per l’ascesa. Per noi poi andava bene, voleva dire che l’anno successivo avremmo avuto una trasferta in meno». Pragmatico Rogger. A guidare in panchina e… dal ghiaccio quella squadra, Réal Vincent. «Aveva qualità, una brava persona - osserva l’ex numero 20 -, ma voleva più giocare che allenare. Poi ha capito che sarebbe stato meglio fare solo l’allenatore». Da qui l’ingaggio di Robert «Bob» Sirois che diede vita alla linea celebrata musicalmente da Flavio Maspoli: «Jenni-Jeker-Sirois, via tücc che nümm sem scià». «Da quel momento la squadra è cambiata», puntualizza l’ex difensore.

Grande Lugano: «Geo, John e Fausto»

Siamo alle origini del Lugano che sarebbe diventato “Grande”. Dopo un anno di assestamento, nella stagione 1983-84 cala a Lugano l’incognita John Slettvoll. «Ti faceva lavorare di brutto, ma quando c’era da festeggiare lui era in prima fila- commenta sorridendo Rogger -. Progressivamente la mentalità è cambiata e soprattutto John ha impostato una tattica, come vincere una partita a partire dai nostri mezzi». I mezzi erano acquisti di giocatori svizzeri come Eberle, Ton, Lüthi, Eggimann, stranieri come la star svedese Mats Waltin e lo sconosciuto… Kent Johansson. Arrivano tre titoli consecutivi tra il 1986 e il 1988. «Il primo campionato vinto è stato quello più bello, i luganesi aspettavano da sempre quel titolo - rievoca Rogger -. Riaffiora un rimpianto. «Tra tutte le partite giocate, quella che mi è rimasta sul groppone è la sconfitta nella finale del 1989 in casa contro il Berna. Avevamo forse la squadra di maggior talento mai avuta, arrivati alla quinta partita, tutto era aperto. Abbiamo pressato tantissimo ma il portiere Renato Tosio ha fatto la differenza, e se non segni le reti…». Non in pista, ma nell’hockey luganese e svizzero, la differenza l’ha fatta Geo Mantegazza, presidente dal 1978 al 1991. «The best - osserva Bruno Rogger -, ha portato l’hockey svizzero a un nuovo livello, perché tutti hanno seguito il modello Lugano. Poi è diventato tifoso. Ricordo un paio di partite giocate malamente contro l’Ambrì. Il giorno dopo era entrato nello spogliatoio picchiando i pugni sul tavolo. Abbiamo sempre saputo quanto fosse importante il derby per Geo Mantegazza». A mediare tra presidente e allenatore, lo storico ds Fausto Senni. «Grande personaggio! Il bello di Fausto è che era sempre allegro e positivo, se Slettvoll era furente, gli parlava e riusciva a calmarlo».

Un ristoro chiamato «Time out»

Parallelamente e dopo l’hockey Bruno Rogger lavora 20 anni in banca poi in un ufficio di brokeraggio. Nel 2005 con la sua compagna apre il Time Out, uno snack bar nel cuore di Lugano, dove dal 2011 è operativo a tempo pieno secondo il motto Today is a good day to be happy. Come è nella natura di chi è originario di Quesnel, Columbia Britannica, Canada, dove Bruno Rogger ha iniziato l’avventura hockeistica con sua madre a dirgli di studiare di più e giocare di meno. «Mia mamma era la mia più grande tifosa - commenta - veniva a vedermi giocare ovunque». Naturalmente anche ai Giochi Olimpici disputati in Canada, a Calgary, nel 1988, «ai quali ho partecipato con la Svizzera. Ricordo che sugli spalti c’erano tutti, genitori, fratelli, parenti, amici, una festa!». Spalti che oggi sono diventati i suoi, alla Cornèr Arena. «Seguo il Lugano in campionato, quest’anno lo vedo bene, ma io sono un uomo da playoff», sorride Bruno Rogger, «leggenda» dell’Hockey Club Lugano.

Cesare Zamberlani nell'enoteca di famiglia.
Cesare Zamberlani nell'enoteca di famiglia.

Cesare Zamberlani, il cecchino biancoblù

«Bruno Rogger me lo ricordo bene, soprattutto il suo check che mi ha fatto fare una piroetta oltre la transenna a Lugano, il primo anno che giocava» rievoca Cesare «Kuki» Zamberlani, cecchino biancoblù per sette stagioni. E quel derby della promozione? «È stato un derby un po’ particolare, in una stagione mirata per ritrovare la serie A. Ricordo che con la vittoria a Sierre avevamo raggiunto la matematica promozione e così a Lugano andava in scena una partita diciamo di «liquidazione», che cadeva nella settimana di Carnevale». Qui l’aneddoto. «Scendendo col bus verso Lugano ci siamo fermati al carnevale di Faido, dove abbiamo comprato parrucche e addobbi carnevaleschi vari che poi qualcuno di noi aveva infilato nel borsone. Alla Resega, il nostro allenatore Jiri Kren ci disse: «Chi vuole li indossi pure per il riscaldamento». Io ero uscito con una parrucca viola e gli occhiali…». Immancabili i fischi da parte dei tifosi del Lugano, «e anche il comitato non aveva preso molto bene il nostro comportamento», commenta l’ex numero 9.

Jiri Kren e il superblocco con Panzera e Gardner

L’esordio in prima squadra di Zamberlani coincide con un ricambio generazionale. «Storici giocatori avevano smesso, la stagione 78-79 è stata un po’ così, infatti siamo retrocessi» - osserva l’ex attaccante -. Al posto dell’allenatore Ivan Bencic, bisnonno della tennista Belinda, «in panchina era arrivato Alpo Suhonen, allora 30enne alle prime armi, che ha portato una ventata di novità a livello di metodi di allenamento. Purtroppo la squadra era molto giovane e non siamo riusciti a raggiungere subito la promozione, come auspicato dalla società». È la volta allora del ritorno in panchina dello storico allenatore Jiri Kren, «che ci ha fatto crescere per due anni fino a portarci alla promozione». Nel primo dei quali prende forma il super blocco formato da Fiorenzo Panzera, Dave Gardner, e Cesare Zamberlani, 106 reti in tre (24, 51 e 31) voluto da Kren! «Bisogna dire che alle nostre spalle, in difesa avevamo Rudolf Tajcnar, che quando usciva dal terzo ti serviva alla perfezione – chiosa l’ex numero 9 -. Ricevuto il disco da Rudolf, Fiorenzo entrava in velocità nel terzo dalla sinistra e poi ci voleva qualcuno che fosse al posto giusto al momento giusto…». «Jiri Kren è stato un punto di riferimento - prosegue Zamberlani - l’ho sempre ritenuto un allenatore particolare, alla panchina era davvero un bravo stratega, ma i suoi erano metodi di allenamenti molto duri. Ricordo che il giovedì ci faceva pattinare per 45 minuti senza vedere il disco, e non tutti apprezzavano». Gli anni in cui alla presidenza vi era il mitico Numa Celio.

Un’enoteca, quattro generazioni

Se nasci a Piotta o ad Ambrì, o giochi a hockey o ti metti sugli sci. «C’è stato un momento in cui ero indeciso - commenta l’ex giocatore - ero più propenso a sciare, ma con un padre socio fondatore dell’Ambrì e per 20 anni giocatore e allenatore… Lui però non mi ha mai portato a pattinare. È stata mia madre, nel 1979, a chiedere a Rudolf Kilias, allora allenatore dell’Ambrì nonché maestro di ginnastica alle nuove scuole a chiedergli: «Ma come si fa a giocare?»; «Lo porti mercoledì pomeriggio all’allenamento». Kuki Zamberlani inizia così a 11 anni l’avventura hockeistica, per la preoccupazione della mamma: «Trascorre più tempo in pista che a scuola».

Tra il 1978 e il 1986 il professionismo nell’hockey è ancora di là da venire. Il numero 9 decide allora di formarsi alla rinomata Scuola vitivinicola di Changins, (da qui il suo trasferimento per un anno a Sierre seguito da un anno all’Olten) per poter poi portare avanti con competenza la tradizione secolare dell’Enoteca di famiglia, nata nel 1891, giunta alla quarta generazione. «Oggi produciamo circa 30 mila bottiglie l’anno con 8 etichette grazie alla trentennale collaborazione con la ditta Gialdi». Come sarà l’annata 2024-25… dell’Ambrì Piotta? «Come per la prossima vendemmia, la vedo come una buona annata. La squadra, contrariamente alla scorsa stagione dovrebbe trasformare la Gottardo Arena in una roccaforte, grazie al suo pubblico e all’ambiente che si viene creare». Un ambiente che anche Cesare Zamberlani contribuisce a riscaldare: «Prima di ogni partita, qui all’Enoteca di Piotta organizzo aperitivi a base di affettati nostrani». E buon vino, naturalmente.

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