«Le piante sono intelligenti e hanno molto da insegnarci»

Nella nostra conoscenza della natura siamo ancora dei principianti. A tre secoli da Linneo, a 170 anni da Darwin e a 70 dalla scoperta del DNA, credevamo di sapere tutto o quasi sulle dinamiche della biosfera, quello straterello di 20 chilometri scarsi di spessore nel quale si concentra tutto il miracolo del mondo vivente. Un insieme interconnesso di oltre 2 milioni di specie in continua evoluzione, un patrimonio di biodiversità unico nell’Universo (per quanto ne sappiamo) dal quale dipende anche la sopravvivenza di un’altra specie unica. Quella nata 300mila anni fa che orgogliosamente abbiamo battezzato Sapiens.
Credevamo di sapere tutto o quasi. E poi ci si accorge che ci sono strutture di funghi sotto i nostri piedi grandi come campi di calcio, che le radici degli alberi di un bosco «sentono» la presenza di una sostanza chimica infinitesimale, o «vedono» un ostacolo, a decine di metri di distanza muovendosi di conseguenza, che le piante «riconoscono» l’ambiente e lo modificano a loro vantaggio. Che senza cervello, stomaco, occhi e polmoni, o singoli organi specifici vitali, creano una rete capace di fare tutto quello che fanno gli animali. Che le piante «si muovono» e colonizzano deserti, mari e montagne, in comunità legate tra loro da una forza invincibile di cooperazione e di cura per la sorte dei propri piccoli.
«Da quando abbiamo potuto vedere il pianeta Terra fotografato dallo spazio», commenta Stefano Mancuso, 58 anni, botanico, docente universitario, divulgatore appassionato di una nuova ecologia che trova sempre più straordinarie conferme scientifiche, «siamo abituati a chiamarlo il Pianeta Azzurro. Ma bisognerebbe chiamarlo piuttosto il Pianeta Verde, visto che la biomassa vegetale rappresenta il 97 per cento di tutti i viventi e che la sua unicità, la creazione di terreno fertile e della stessa atmosfera ricca di ossigeno, è resa possibile dai vegetali».
Stefano Mancuso ha creato a Firenze l’Istituto Internazionale di Neurobiologia Vegetale, è autore di saggi divulgativi di grande successo e non si tira indietro rispetto alle provocazioni intellettuali e filosofiche che nascono spontanee dai suoi studi. Lo abbiamo incontrato al LAC di Lugano, dove è stato invitato dalla Fondazione Ibsa nell’ambito degli incontri su Scienza, Etica e Arte.
Professor Mancuso, lei parla apertamente di «sensibilità» e «intelligenza», delle piante. Sono intuizioni che è possibile affrontare finalmente sul piano scientifico?
«Assolutamente sì, se si ha il coraggio di superare i nostri pregiudizi e l’Istituto di Neurobiologia Vegetale di Firenze nasce proprio per questo. Io sono fortemente convinto che il metodo scientifico rappresenti la via migliore per la ricerca della verità. Abbiamo ideato una serie di esperimenti rigorosamente controllati e i risultati sono indiscutibili. Le piante interagiscono con l’ambiente esterno e si adattano ai cambiamenti, possono perdere intere parti senza soffrirne perché hanno organi «diffusi», diversi da quelli che siamo abituati a descrivere. Nel classico test sull’ intelligenza animale, quello del labirinto, le radici appaiono addirittura geniali nel raggiungere il loro obiettivo finale, senza compiere mai il minimo errore».
I suoi studi ribaltano tutti i luoghi comuni che descrivono il mondo vegetale come «inferiore» a quello animale, a cominciare dal termine «stato vegetativo» per definire una persona in coma.
«Perché è assolutamente così, a parte che in natura non esistono i termini superiore o migliore. Quando parliamo di sensibilità, intelligenza, reazione agli stimoli, riferendoci alle piante, sembra forse che si sconfini nella filosofia. Ma la scienza ci sta ponendo veramente di fronte a conoscenze nuove e sorprendenti. I funghi, per esempio, rappresentano un mondo sotterraneo semisconosciuto e la loro interazione in simbiosi con le radici di un bosco continua a stupirci. Le foreste sono dei veri superorganismi, creano tra loro una rete, un network diremmo oggi, di mutuo supporto, di attenzione e di cura reciproca, che si è rivelata come la strategia di successo più efficiente evolutasi in natura».
I suoi libri, a cominciare da «Verde brillante» di 10 anni fa, hanno avuto un enorme successo di pubblico e sono stati accolti da molti come una vera rivelazione. Lei propone anche una sorta di pedagogia della natura. Qual è dunque il messaggio fondamentale che questa nuova visione del Pianeta Verde ci può dare?
«Come scienziato non posso non vedere che la rete che le piante riescono a sviluppare tra loro, vivendo in comunità e non come singoli individui, è una garanzia di sopravvivenza, della quale i vegetali detengono tutti i record. La «Nazione delle Piante», come l’ho chiamata in un libro, ha molto da insegnare anche a noi. È su questa capacità di «stare insieme» che si misura il successo delle singole specie. Già oggi dobbiamo confrontarci con sfide ambientali drammatiche causate dai nostri comportamenti predatori e irresponsabili nei confronti del pianeta, senza un progetto comune di sviluppo sostenibile. Un recente Report di Cambridge ha stimato del 50 per cento la distruzione di tutta la biomassa animale esistente in natura dal 1970 ad oggi. La perdita della biodiversità non è un’opinione».
La scomparsa del patrimonio verde, a cominciare dalle foreste primarie, non è da meno.
«Purtroppo no, se si considera che su 3000 miliardi di alberi rimasti ai primi dell’Ottocento, già la metà di quelli presenti all’arrivo del Sapiens, ne abbiamo persi altri 2000 miliardi solo negli ultimi due secoli, Europa compresa. Si parla tanto, e giustamente, di contenimento delle emissioni di CO2 limitando l’uso di petrolio e carbone. Ma un provvedimento altrettanto importante dovrebbe essere la riforestazione. Piantando 1000 miliardi di alberi in 10 anni, cosa assolutamente possibile tecnicamente, anche attorno alle nostre città, ridurremmo del 30 per cento l’anidride carbonica nell’atmosfera e l’effetto-serra sul clima».
Che futuro vede lei, come scienziato, per la specie Sapiens ? Ci aiuteranno a sopravvivere l’intelligenza e la tecnologia?
«Nella scala dell’evoluzione, la durata media di una specie è di 5 milioni di anni. Il Gingko Biloba, un albero di origine cinese, è riuscito a non estinguersi per 250 milioni di anni. I danni prodotti dalla specie umana in 300mila fanno già suonare l’allarme. Dovremmo finalmente capire di far parte anche noi della natura, cancellando quella arroganza di specie «superiore» che crede di poterla solo sfruttare, o governare da fuori, da un mondo artificiale. La nostra intelligenza non è altro che uno strumento evolutivo, come il colore dei fiori, la vista dell’aquila o i denti dello squalo. Può servire, nella corsa per sopravvivere, ma potrebbe anche essere la causa di un fallimento clamoroso. Visti da lontano, come 8 miliardi di insetti nel telescopio di un ipotetico alieno su Alfa Centauri, potremmo anche essere giudicati alla fine come la specie più stupida mai apparsa sulla Terra.