Le rotte dei «narcosub» tra Azzorre e Canarie

Operazione Nautilus. Così l’hanno ribattezzata gli agenti della Guardia Civil spagnola e i loro colleghi portoghesi: un abbordaggio a 925 chilometri dalle Azzorre per fermare un battello a basso profilo con a bordo 6,5 tonnellate di coca. Uno dei tanti «narcosub» che dal Sud America si dirigono verso tutti i mercati, nessuno escluso. Un fenomeno in espansione pericolosa.
Inizialmente i trafficanti hanno «battuto» le rotte del Pacifico, con mezzi costruiti nella giungla, in fibra, destinati a raggiungere il Centro America o il Messico, prima tappa del carico poi fatto proseguire verso gli Usa via terra o con altri sistemi. Scafi in grado di portare tra le due e quattro tonnellate di «polvere», destinati poi ad essere affondati - dunque «utili» per una sola missione - mentre gli equipaggi facevano rientro a casa. Di solito Colombia ed Ecuador, dove non è complicato arruolare la ciurma.
Successivamente i criminali hanno aperto il «canale» caraibico - con minore frequenza - per poi allargarsi ad ogni quadrante geografico come fossero una grande società marittima. Ecco lo stop ad un battello che aveva come meta l’Australia ed un altro scoperto, per caso, su una spiaggia della Sierra Leone, sulla costa occidentale africana, stato molto «chiacchierato» per la presenza di personaggi di figure collegate alla droga. Ancora un altro, nel gennaio 2024, a sud di Cadice.
In questo panorama globale una delle destinazioni preferite è stata la penisola iberica, in particolare la Galizia, regione dove una volta operavano i contrabbandieri delle sigarette in seguito passati a «roba» più pesante. E infatti a partire dal 2019 sono stati scoperte intercettate alcune di queste «unità», una prova evidente del patto d’azione tra cartelli sudamericani e europei. In realtà c’era stata un’anteprima a metà degli anni ‘90 con un piccolo scafo semisommergibile sequestrato dalla polizia ma probabilmente doveva operare solo sotto costa e non aveva affrontato la pericolosa attraversata dell’Atlantico, ossia il viaggio ripetuto dal narcosub «preso» a fine marzo alle Azzorre.
Gli investigatori, aiutati anche dalla Dea americana, hanno fornito dettagli interessanti. Il vascello procedeva a 6-7 nodi, lasciando emergere - come gli altri - solo una piccola torretta. Era spinto da due motori diesel e il suo equipaggio era composto da cinque uomini, compreso uno spagnolo, che si alternavano nelle mansioni: due ai comandi e tre a riposare in uno spazio angusto, asfissiante. Il loro compenso oscillava tra i 25-30 mila euro. Costo dello scafo stimato in 500 mila euro, cifra in ribasso rispetto agli 800 mila del passato. Sempre le indagini hanno accertato che i «pirati» hanno ridisceso il Rio delle Amazzoni seguendo un itinerario ormai consolidato fino a sboccare in mare aperto puntando la prua verso l’Europa. Tempo di percorrenza non meno di tre settimane cercando di sopravvivere e stare a galla, mangiando cibo in scatola e uscendo da quella «bara» solo per qualche minuto.
La storia, oltre all’importanza del colpo messo a segno dalle forze di sicurezza, ha rappresentato una conferma indiretta di quanto affermato molto tempo fa da un boss portoghese: a suo dire tra Azzorre e Canarie vi sarebbe un cimitero dei narcosub che non sono riusciti a raggiungere la destinazione. Con «marinai» e «pacchi» di stupefacenti finiti sul fondo, travolti da una tempesta, fermati da un’avaria senza che nessuno potesse recuperarli. Delle vite a perdere in un sistema dove non c’è mai penuria di volontari e di cocaina.