Le spine islamiche del Re di Giordania, tra Palestina e Israele
La Giordania vive un momento difficile. Tante le spine per il regno, stretto tra le manovre mediorientali. Il Paese è appena andato al voto in condizioni complesse. La crisi economica lo assedia, la disoccupazione supera il 21 per cento, cresce il debito, il turismo che da sempre rappresenta una voce importante è calato della metà, gli attacchi degli Houthi in Mar Rosso hanno inciso sui commerci verso il porto di Aqaba. Gli aiuti internazionali non sono certo sufficienti a rispondere a tutte le domande, serve molto di più, comprese riforme che non possono essere attuate - sempre che vi sia la volontà totale - nell’arco di pochi mesi in una realtà dominata dall’equilibrio tra i diversi clan tribali, da sempre l’arco portante del sistema.
L’instabilità è la migliore alleata di chi spera di sfruttare le tensioni, saldando le crisi regionali con le tensioni sociali. Anche qui non mancano gli incendiari perché sono troppi i focolai accesi. Intanto c’è il rischio di contagio per quanto avviene a Gaza e Cisgiordania. Su undici milioni di abitanti una buona parte è palestinese, soffre per quanto avviene dall’altra parte del confine, non nasconde la sua avversione nei confronti di Israele. Alle recenti elezioni parlamentari gli islamici del Fronte d’azione, di fatto la Fratellanza musulmana, hanno conseguito un successo importante in una consultazione marcata dall’assenteismo. Il meccanismo parlamentare in atto limita il loro potere, però gli islamici si fanno sentire, raccolgono il sentimento della contetazione, e sono tra i più decisi nell’invocare posizioni dure contro lo Stato ebraico. Un’ostilità bilanciata dal pragmatismo di re Abdallah. Che si è sdoppiato. Da un lato ha espresso condanna per le mosse di Tel Aviv, ha partecipato ai lanci di viveri sulla Striscia, ha bussato ad ogni porta diplomatica per fare pressione. Dall’altro, però, ha chiuso la strada alle spinte radicali (usando anche gli arresti), ha usato le sue forze armate per intercettare missili lanciati dall’Iran nella rappresaglia d’aprile contro Israele, ha messo a disposizione del Pentagono le sue basi confermando il ruolo di partner dell’Occidente.
Il sovrano è stato costretto a camminare su un filo sottile, consapevole dei troppi pericoli. Lo dimostra quanto è avvenuto pochi giorni fa quando un camionista giordano, membro di una «famiglia» importante - gli Huwaitat -, ha ucciso tre guardie israeliane al posto di frontiera di Allenby. Un attentato gravissimo e non solo perché ha fatto delle vittime. La paura è che possa indurre altri a seguire l’esempio. I servizi di sicurezza sono in allarme in quanto vi sono segnali consistenti sui traffici d’armi in favore dei palestinesi in Cisgiordania.
Nei mesi scorsi Amman ha denunciato attività coperte da parte degli iraniani. I pasdaran, starebbero soffiando sul fuoco della protesta mentre gli ambienti «islamici» farebbero da sponda ad Hamas, espulsa da tempo. Teheran può contare su qualche complicità locale ed usare il quadrante siro-iracheno come punto di partenza per missioni destabilizzanti.
Al contrasto politico si aggiunge quello sul contrabbando del captagon, droga sintetica prodotta in laboratori siriani e libanesi. Veleno che deborda in Giordania per essere poi distribuito nel Golfo Persico ma anche in Europa. Una piaga aperta dove sono note le accuse di complicità nei confronti di Damasco e di milizie amiche di Teheran. Minaccia che ha spinto i giordani a sferrare alcuni raid aerei sui covi dei banditi in Siria. Una delle infinite guerre parallele che si combattono nel sotto il vulcano mediorientale.