L'eredità di Assad, tra clan e jihad

La Siria, dopo essersi liberata della dinastia Assad, ha ancora molte spine, capaci di provocare ferite laceranti e riaprire il conflitto civile. Ne abbiamo avuto prova nella settimana appena chiusa segnata da massacri nella zona occidentale.
Il primo colpo lo hanno portato i nostalgici del regime lanciando una serie di attacchi coordinati nella regione di Latakia. Un’operazione ben studiata che ha provocato numerose vittime e che è stata presentata come il battesimo del fuoco della nuova resistenza. Questa volta nel segno della comunità alawita, minoritaria nel paese ma che per decenni ha beneficiato della tutela della dittatura in quanto gli Assad ne sono «figli». Guidati da alcuni ex ufficiali, gli insorti hanno presentato l’offensiva come una risposta a mesi di violenze, soprusi e omicidi da parte di gruppi sunniti, spesso parte della coalizione che ha conquistato a dicembre Damasco costringendo il raìs a fuggire in Russia. E’ una realtà che ha deciso di prendere il destino nelle proprie mani entrando però su un sentiero pieno di incognite.
L’assalto ha provocato una rappresaglia feroce documentata da molti video di esecuzioni sommarie dentro i villaggi. Rastrellamenti, incursioni e sparatorie hanno costretto molti abitanti costretti a cercare rifugio nella base di Hmeimin, ancora in mano ai russi e al centro di una lenta trattativa diplomatica con Mosca che cerca di mantenerla. Uscendo dallo schematismo bianco-nero - anche perché la propaganda dei due schieramenti ha diffuso notizie false o non corrette - la pagina nera ha confermato alcuni aspetti. Primo. C’è ancora molto odio, voglio di vendetta. Una conseguenza delle nefandezze compiute negli anni dagli Assad. Con migliaia di morti e repressione. Secondo. La ribellione alawita è composita: ne fanno parte personaggi coinvolti in crimini, ex militari, persone che ritengono di non aver altra scelta in quanto a rischio di essere eliminate o chiuse in ghetti. Terzo. È possibile che alcune frange siano appoggiate dall’Iran, il grande sconfitto, che aveva promesso di sostenere i resistenti in nome della vecchia alleanza. Quarto. Sono ancora molte le «brigate» agli ordini del nuovo governo attestate su posizioni estremiste o jihadiste. Per loro la guerra non è ancora finita. Come non sono finiti i traffici di clan che si sono ricavati spazi e le ambizioni di gruppi che solo a parole accettano il nuovo ordine. Quinto. Esiste il pericolo di una deriva settaria, con omicidi anche all’estero.
A bilanciare le notizie orrende è arrivato l’annuncio - importante - dell’accordo tra Damasco e i curdi siriani, ai quali saranno riconosciuti i pieni diritti dopo decenni di conflitti mentre loro riconoscono l’autorità centrale. L’intesa è un segnale verso la minoranza ma anche un modo per ricomporre un mosaico territoriale fratturato. Il Kurdistan siriano, nella parte nord orientale, possiede importanti risorse petrolifere, un prodotto quanto mai necessario per uno Stato privo di risorse. Anche qui non mancano, però, gli interrogativi. Intanto la riconciliazione deve superare la prova del campo. E, in secondo luogo, sarà interessante vedere la reazione della Turchia, nemica tenace dei curdi e a tal fine sponsor di alcune formazioni guerrigliere che hanno ingaggiato battaglie con i separatisti. E a proposito di fatti ecco una terza spina. Israele continua ad allargare la sua presenza in terra siriana costruendo basi e sferrando raid. L’intento è doppio: creare una fascia di sicurezza all’esterno dei propri confini per un tempo illimitato; dare protezione a quella parte di comunità drusa in Siria che non si fida di Ahmed al Shara ed ha rapporti con i «fratelli» che vivono nello Stato ebraico. L’IDF pretende che vi sia un’area demilitarizzata, dichiara apertamente la sua ostilità verso gli ex ribelli considerati dei jihadisti mai pentiti, non nasconde di rimpiangere il vecchio regime.
Nel tentativo di recuperare terreno al Sahara ha presentato una nuova carta costituzionale che prevede un periodo di transizione di cinque anni al termine del quale vi saranno le elezioni. Inoltre, si precisa che la giurisprudenza islamica sarà la principale fonte di ispirazione «legale» ma combatterà ogni forma di estremismo. Per gli osservatori è un modello «turco» mentre a giudizio dei critici la formula non è abbastanza inclusiva e tale da placare le paure. Nulla è semplice in questo angolo di mondo.