Lo spirito di Davos che si adatta al segno dei tempi
La quattro giorni del Forum economico di Davos si è conclusa, finalmente. Il bilancio da parte degli organizzatori della 55.ma edizione è, come al solito, positivo: un successo sotto ogni punto di vista e questo grazie a un’abile strategia di comunicazione.
Nella settimana iniziata con l’insediamento di Donald Trump alla Casa Bianca si temeva che il WEF passasse in secondo piano. Così non è stato. In una sorta di cortocircuito spazio-temporale e tecnologico, il neopresidente degli Stati Uniti ha avuto il dono dell’ubiquità e la possibilità di rivolgersi prima ai suoi concittadini dalla cupola di Washington all’inizio della settimana e poi direttamente - via streaming - a una platea di imprenditori e uomini di azienda internazionali a Davos tre giorni dopo. E Donald Trump dallo schermo della sala principale del WEF non ha deluso le aspettative; ha ribadito il discorso programmatico della sua seconda presidenza sintetizzabile in «più dazi per voi e meno tasse per noi» e minacciato l’Europa (intesa come Unione europea, ma non solo) di scatenare una guerra commerciale se non si dovesse piegare ai suoi desideri. Nulla di nuovo sotto il sole rispetto a otto anni fa, all’inizio del suo primo mandato presidenziale.
Del tema portante della 55.ma edizione del WEF si sono perse subito le tracce. Inutile cercarle nei resoconti di stampa e televisioni. Della «Collaborazione nell’era intelligente», il riferimento è all’intelligenza artificiale driver prossimo venturo del futuro sviluppo economico e anche sociale, che doveva essere il filo rosso delle discussioni davosiane è rimasto soltanto lo slogan. A far parlare sono stati i personaggi politici più o meno eccentrici accorsi per una passerella a Davos. Di Trump abbiamo detto. Ma è a Xavier Milei, il presidente dell’Argentina, che si può assegnare la medaglia virtuale del «vino al vino e pane al pane» per la dichiarazione più forte. Davanti a una platea che poco più tardi avrebbe applaudito a più riprese - non sempre calorosamente, a onor del vero - il discorso del ritorno a una sorta di neomercantilismo di marca americana di Trump, Milei ha affermato che eventi come il WEF «sono stati protagonisti e promotori della sinistra agenda woke che sta facendo così tanti danni al mondo occidentale». Ha invitato quindi la platea ad abbandonare «le idee woke e il femminismo radicale», definiti «un modo per promuovere lo statalismo». In pratica ha suonato le campane a morto agli eccessi, secondo lui e chi la pensa come lui, del politicamente corretto. Probabilmente nella società americana qualcosa nell’ultimo decennio si deve essere rotto e a situazioni esasperate nelle università e centri di ricerca che hanno attribuito all’Occidente ogni responsabilità passata, presente e futura in materia di colonialismo, razzismo e sessismo è subentrata una reazione estrema. Però i principi elementari del buon vivere civile, della tolleranza, dei diritti individuali e della libertà di espressione e sessuale che caratterizzano - o che per lo meno dovrebbero farlo - le società occidentali sono stati praticamente gettati al vento in meno di una settimana e anche questo tra gli applausi, speriamo molto tiepidi, del popolo davosiano.
Ma quello che negli anni è stato definito lo «spirito di Davos», quell’atmosfera tra l’ovattato e l’informale che ha permesso una efficace diplomazia parallela si è trasformato in un «applaudificio». Si è fatto in pratica concavo e convesso a seconda dell’interlocutore. Da Vladimir Putin a Xi Jimping, passando per Donald Trump prima e seconda edizione, e una giovanissima ambientalista Greta Thumberg, tutti hanno avuto la loro dose di applausi.