L'intervista

L'ultima sentenza di Ermani

L'ex presidente del Tribunale penale rompe il silenzio, e ripercorre con La Domenica gli ultimi mesi – «Io colpito dalla politica. Il messaggio? L'errore è stato fidarmi»
©Gabriele Putzu
Davide Illarietti
16.02.2025 06:00

Mauro Ermani non somiglia ai giudici di Friedrich Dürrenmatt, che anche in pensione si divertono a organizzare processi. Dopo essersi dimesso l’ex presidente del Tribunale penale ha passato le ultime settimane «cercando l’isolamento» e il riposo. Dice che non legge più i giornali. Ha spento il telefonino e si è trasferito in montagna per «staccare da tutto».

Poi, dopo una riflessione ha deciso di concedere un’intervista alla Domenica, in un freddo pomeriggio di questa settimana. Seduto davanti al camino potrebbe sembrare un convalescente qualunque - «mi sto abituando alla vita casalinga» - ma non lo è. Ha smesso la toga ma non l’inseparabile sciarpa scozzese, compagna di tante sentenze: segno che forse il processo non è finito. La sentenza più difficile, quella su sé stesso, la sta ancora preparando.

Signor giudice, anzitutto come sta?
«I medici dicono che sono stazionario. Le mie condizioni non impediscono un’intervista».

Però sembrava sparito.
«Dopo le dimissioni mi sono preso un periodo di totale distacco: il telefono suonava di continuo, dovevo tutelarmi. Odermatt l’altro giorno ha detto che sta imparando a dire di no: lo capisco».

Chi l’ha cercata?
«Tante persone, anche colleghi. Naturalmente fa piacere l’interesse, ma ho dovuto fare una scelta in qualche modo egoistica».

L’ha chiamata anche qualche politico?
«Qualche deputato, sì. Per esprimermi solidarietà. Ma non dalla sinistra».

Tanto interesse per il fatto che ha dato le dimissioni anticipate per motivi di salute.
«Confermo che questo è il motivo e non altro. È stata una decisione obbligata. Ho tre bypass e ho subito di recente un ricovero: una recidiva per un altro problema. I medici mi hanno detto che dovevo assolutamente uscire dal mio ambiente di lavoro».

«Non sono stati mesi facili. Ma ho svolto la mia attività professionale come ho sempre fatto
Mauro Ermani

Troppi batticuori sul lavoro, ultimamente?
«Non sono stati mesi facili. Ma ho svolto la mia attività professionale come ho sempre fatto. Badi bene: in tutta questa vicenda non mi è mai stata rivolta una sola critica professionale. Zero. Neanche dai miei più acerrimi nemici. Per me è fondamentale. Se mi è concessa la metafora: come paziente preferisco avere un medico capace, che uno soltanto gentile».

È stato il medico a dirle di non leggere i giornali?
«Non li leggo e basta. Un mondo in cui contano le quisquilie e non i contenuti, non mi appartiene».

Però adesso accetta di parlare.
«Me lo avete proposto voi. Essendo «svincolato» dall’incarico, ora posso esprimermi liberamente».

Prego.
«La cosa che più mi preme sottolineare, è che in tutta questa vicenda la politica e certa stampa hanno messo le mani e i piedi sulla magistratura, violando il principio fondamentale della separazione dei poteri. Sono arrivati a modificare la legge e pretenderne l’applicazione retroattiva, in oltraggio anche al principio della sicurezza del diritto».

Io come magistrato non ho mai piegato la testa davanti alla politica
Mauro Ermani

La cosiddetta Lex Ermani
«Io come magistrato non ho mai piegato la testa davanti alla politica. Per questo probabilmente sono stato oggetto di attacchi personali - non professionali, lo ribadisco - perché qualcuno aveva l’interesse a farmi fuori. Alla fine purtroppo la giustizia ne è uscita perdente ».

E lei ha perso?
«Io ho tirato diritto e ho continuato a lavorare, con la medesima costanza e impegno che mi hanno caratterizzato in 36 anni di magistratura».

Lei non era solo un giudice, ma il presidente del Tribunale. Gestire i conflitti è più difficile che giudicarli?
«I conflitti ci sono ovunque, in qualunque ufficio. In questo caso sono stati molto strumentalizzati. Da un problema tra segretarie si è arrivati a sconquassare l’intero Tribunale».

L’accusa era di mobbing, non proprio una leggerezza.
«È caduta. È stato dimostrato che non c’era assolutamente nulla, se non normali antipatie e invidie che andavano avanti da anni».

Poteva gestirle diversamente?
«Ho separato le due persone, mettendole in uffici diversi, nell’interesse del servizio che infatti è sempre proseguito sui livelli di efficienza abituali. Cos’altro dovevo fare? Il problema non è stato gestire la situazione in sé, ma il modo in cui è stata cavalcata da terzi in malafede».

Si riferisce ai due giudici destituiti.
«La stragrande maggioranza della magistratura ha reagito confermando quello che dico. E lo hanno confermato anche i provvedimenti».

C’è stato anche un provvedimento disciplinare nei confronti di una delle due segretarie, a seguito dell’inchiesta condotta dall’avvocato Galliani.
«Sull’inchiesta non mi esprimo e il provvedimento è comunque sub iudice. In ogni caso, ripeto, l’intera vicenda è stata solo un pretesto per colpire la magistratura e me in particolare».

Il punto di svolta è stata l’immagine che lei ha inviato su Whatsapp a una segretaria.
«Un’immagine inviata quasi due anni fa. La destinataria conosce il contesto in cui l’ho inviata, e forse dovrebbe anche chiedermi scusa per quello che è successo».

Una donna tra due falli e la scritta «Aula penale».
«Era un gioco di parole legato a uno sketch. Lo stesso procuratore straordinario l’ha ritenuta una semplice gag. Una conversazione privata, non di natura sessuale, avvenuta fuori dall’orario di lavoro. La persona che l’ha ricevuta non si è mai lamentata, anzi ha continuato per mesi a comunicare con me in privato e a dire a terzi che ero il capo migliore del mondo».

Il mio errore è stato fidarmi. Ma il danno alla magistratura non l’ho fatto io: semmai chi ha reso pubblica quell’immagine, decontestualizzandola per creare un caso
Mauro Ermani

La rinvierebbe?
«A posteriori, evidentemente no. Il mio errore è stato fidarmi. Ma il danno alla magistratura non l’ho fatto io: semmai chi ha reso pubblica quell’immagine, decontestualizzandola per creare un caso».

Qualcuno la pensa diversamente. I giudici Quadri e Verda Chiocchetti l’hanno denunciata per pornografia.
«Quella denuncia è servita soltanto a farli destituire».

C’erano ruggini personali?
«Bisognerebbe chiederlo a loro. Ancora a maggio, davanti al Consiglio della magistratura, dichiaravano che non c’erano problemi nella gestione del Tpc. Da parte mia hanno ricevuto sempre soltanto sostegno».

Allora è una questione politica?
«Sicuramente la politica c’entra e lo dimostra il modo in cui essa ha reagito e strumentalizzato per mesi la vicenda».

A cosa si riferisce?
«Senza entrare nei dettagli, possiamo dire che una parte dell’ostilità di certa politica nei miei confronti nasce probabilmente dal fatto che ho sempre voluto tenere lontana la politica, e le persone a lei legate, dal Tribunale».

Anche lei però fu nominato in quota socialista
«Io credo nelle competenze. Il problema è il ruolo che vuole giocare la politica: si possono immaginare mille riforme, ma è tutto inutile se il Gran Consiglio vuole mantenere la sua influenza. Per avere una magistratura davvero affrancata, la politica dovrebbe rinunciare ai suoi privilegi, e temo non lo voglia affatto».

Nel suo caso in Parlamento c’è stata una reazione trasversale.
«Questo è preoccupante e, mi lasci dire, anche poco serio. Nessuno conosceva i fatti e nemmeno si è peritato di chiedermi qualche cosa. Bastava attendere i chiarimenti, che poi sono arrivati, ma certi politici hanno preferito sparare sentenze senza processo, dando un’immagine distorta del Tribunale che invece ha sempre funzionato».

Anche il presidente della Commissione giustizia e diritti ha chiesto le sue dimissioni.
«Non conosco Fiorenzo Dadò, non penso di averlo nemmeno mai incontrato. Non la prendo sul personale».

Neanche con i deputati socialisti?
«Cosa devo dirle? Mi permetta una battuta: forse erano meno informati dei loro colleghi della Lega».

Le è dispiaciuto andarsene?
«Certamente. In Tribunale ho lasciato tanti amici, persone validissime, e ho visto dispiacere sui loro volti per la mia partenza. Ma adesso voglio pensare ad altro. Non sono un tipo vendicativo».

Ho dato tutto me stesso per questa professione
Mauro Ermani

Come giudice, che giudizio dà di Mauro Ermani?
«Ho dato tutto me stesso per questa professione. A volte ripenso ai processi, agli avvocati, periti, colleghi che ho conosciuto. Sono stato fortunato, ho potuto svolgere con passione un mestiere in cui ho creduto».

Un processo su tutti?
«Il caso Tamagni».

E il bilancio personale?
«È positivo. Negli anni ho potuto seguire di persona l’esecuzione delle pene, l’evoluzione delle persone sanzionate: il sistema funziona, nonostante tutto. La pandemia è stata un’altra prova importante: abbiamo garantito il servizio in condizioni difficili, è stata una grande soddisfazione».

Le note negative?
«Mi amareggia il fatto che mi hanno insegnato tanti bei principi, la divisione dei poteri e la sicurezza del diritto, ma con le ultime vicende ho scoperto che purtroppo la realtà è un po’ diversa».

Una sentenza pesante.
«La differenza la fanno le persone. Vale per il sistema giudiziario come per tutte le cose».

Lei era famoso per la severità, in particolare con i procuratori.
«Ho espresso anche apprezzamenti, ma di quelli non ci si ricorda. Se ho fatto delle critiche, comunque, è stato solo per migliorare il funzionamento della giustizia. Ancora pochi giorni fa ho saputo di una procuratrice che ha chiesto una pena di 42 mesi parzialmente sospesi quando il massimo è di 36: siamo alle basi».

Che effetto fa seguire i processi da fuori?
«I processi non sono tutto. Negli anni ho avuto il privilegio di conoscere a fondo il sistema penitenziario e di reinserimento, anche in Svizzera interna. Mi sono appassionato di psichiatria forense. Chissà, forse sarà questo il mio futuro».

Non la politica?
«Neanche per sogno».