Mario Botta ricorda di non uccidere e celebra il 5. comandamento
Bisogna essere riconoscenti a Mario Botta perché in un momento buio per l’umanità, in un’opera realizzata insieme al grande artista Emilio Isgrò ha riaffermato la grande attualità del quinto comandamento delle tavole di Mosè: non uccidere. Botta - e questo è un motivo d’orgoglio - è stato chiamato, lui ticinese, a realizzare una installazione per celebrare i 75 anni della Costituzione italiana, cioè l’atto normativo più nobile di uno Stato. Botta e Isgrò (ne parliamo dando la voce ai protagonisti nel fascicolo Società) hanno ricordato che nessun essere umano ha il diritto di togliere la vita a un altro essere umano. E in una semicupola aperta con 21 arcate, posata al museo Maxxi di Roma, hanno scritto in rosso - il colore del sangue e della resurrezione, suggerisce Isgrò - «non uccidere» in undici lingue. Compresi russo e ucraino, arabo ed ebraico, le lingue dei popoli che in queste ore stanno combattendo e uccidendo.
È importante tenere a mente questo messaggio che ci arriva da Roma nelle manifestazioni che si svolgono in questi giorni nelle piazze di mezzo mondo. Manifestazioni che hanno preso una piega preoccupante perché, contrariamente a quanto accadeva in passato, non invocano la pace come valore universale, come appello unico agli Stati per fermare le armi ma hanno assunto una deriva che va nella direzione contraria. Non si scende più in piazza per il cessate il fuoco ma per parteggiare contro Israele, ovunque. Cioè si va contro il Paese che è stato attaccato facendo strage di civili e che si sta difendendo. Poi si può legittimamente, anzi doverosamente ribadire che le politiche di Benjamin Netanyahu sono eccessive e che non si può radere al suolo la Striscia di Gaza dove sono state costrette a vivere senza umanità migliaia di persone. Ma se non si torna a ribadire che il concetto di fondo è il cessate il fuoco, la liberazione degli ostaggi, la ripresa delle trattative per arrivare a «due popoli, due stati», non si va da nessuna parte.
Ha detto bene recentemente il cancelliere tedesco Olaf Scholz quando ha fatto notare che «la nostra storia e la nostra responsabilità derivante dall’Olocausto, ci impone il dovere perenne di difendere l’esistenza e la sicurezza dello Stato di Israele anche se ora è sotto l’attacco di Hamas e non dei nazisti». Un discorso che non riguarda unicamente la Germania ma l’intera comunità internazionale. Un discorso che non si limita a prendere atto dell’orrore di quanto sta accadendo ma rivolge lo sguardo al futuro e chiede a tutti noi di prendere coscienza del nodo vero dell’attacco di Hamas, cioè - come dichiarato pubblicamente più volte dai loro leader - l’annientamento di Israele. Certo, Hamas non è il popolo palestinese che legittimamente chiede regole certe e un suo territorio, così come Netanyahu non è Israele.
Oltre le polemiche, l’ipocrisia che porta a fare salti mortali nelle dichiarazioni intrise di calcoli elettorali, è necessario individuare la sostanza di quanto sta accadendo. È necessario più che mai richiamare un dovere morale che l’Europa, e non solo, ha nei confronti del popolo ebraico, per la disumanità subita, senza dimenticare di mettere in rilievo che le vittime di ieri non possono essere i carnefici di oggi. Perché poi alla fine, come ci ha insegnato Luis Ferdinand Céline, la guerra lascia solo profonde cicatrici insanabili e non ha vincitori ma soltanto vittime, distruzione, memorie smarrite nel risentimento. Non dobbiamo dimenticarlo nemmeno noi quando facciamo i conti con la nostra coscienza rifugiandoci spesso dietro una ipocrita cortina di compassione.