Morte amara in clinica
La difficoltà a respirare. La corsa in ospedale. Il ricovero. L’impietosa diagnosi. L’apparente miglioramento. La notte tranquilla. Ma poi la morte, accompagnata dall’amarezza e dalla frustrazione dei figli che sentono di non aver potuto salutare la loro mamma come avrebbero voluto.
«Capiamo che negli ospedali ci devono essere delle regole, ma in certe situazioni non sarebbe possibile mostrare un po’ più di umanità?», si chiedono i figli di una donna deceduta di recente in una struttura sanitaria del Luganese. Un tragico evento che riapre la mai sopita discussione sul ruolo che possono avere le strutture ospedaliere e il personale sanitario negli ultimi momenti di vita di una persona.
Un fulmine a ciel sereno
«Domenica mattina presto la nostra mamma ha accusato un affanno del respiro, è stata trasportata in ambulanza in ospedale e ricoverata nel reparto di cure intensive - spiegano i figli -. La diagnosi è stata un fulmine a ciel sereno. La nostra mamma aveva una polmonite ormai incurabile».
Di colpo, l’ombra di quel momento che si vorrebbe sempre posticipare si è presentata davanti agli occhi della famiglia. «La nostra mamma aveva 87 anni e siamo consapevoli che la sua vita l’ha vissuta, ma comunque è stata una doccia fredda. La mamma è sempre una mamma, ad ogni età», osservano i figli.
«Il nostro papà, 87 anni, 62 di matrimonio, ha ascoltato con estrema dignità la sentenza della fine imminente - proseguono -. Noi naturalmente volevamo stare con lei il più possibile, ma ci sono le regole, anche quando non c’è più nulla da fare. Domenica sera alle 20 siamo dovuti andare via e le visite sarebbero state permesse dalle 15 del giorno dopo.Era davvero poco il tempo per stare con lei visto che se avesse nuovamente avuto una crisi respiratoria avrebbe potuto essere quella fatale».
Il ritorno a casa e la chiamata d’urgenza
Ma quella sera i figli e il marito non hanno potuto far altro che seguire le direttive del personale ospedaliero e tornarsene a casa. «Con la scusa di portarle il telefonino, uno di noi l’ha vista pochi minuti lunedì mattina verso le 9 - spiegano -. Era contenta, aveva dormito bene con la maschera. Ma lui doveva andarsene, fino alle 15 non era possibile fare visite».
Una regola che, col senno di poi, appare troppo rigida. «Purtroppo già circa un’ora e mezza dopo c’è stata la crisi tristemente prevista. Ci hanno chiamati per dire che la mamma se ne sta andando.Siamo corsi tutti insieme in ospedale. Lì sì, l’accompagnamento è stato possibile. Siamo stati tutti insieme al suo capezzale quando lei non ci vedeva purtroppo più».
Tutti insieme nella stanza di una donna morente e di un’altra paziente che non ha avuto altra scelta che assistere al passaggio a miglior vita della sua vicina di letto. «La povera signora nel letto di fronte ha dovuto subire gli ultimi respiri di nostra mamma e i nostri pianti per più di tre ore - raccontano -. Il tutto separato solo da una piccola tenda al centro dei due letti, ma con i lati ben visibili. Incredibile. Triste. Dov’è la privacy? Non sarebbe possibile trovare una tenda totale almeno in questi casi estremi?».
L’atteggiamento del personale
A peggiorare la situazione sarebbe stata, secondo i figli, la mancanza di empatia di parte del personale. «Erano parecchi, separati da noi da un vetro. Mentre noi assistevamo la nostra cara che esalava gli ultimi affannosi respiri, per fortuna sedata e senza sofferenza in quanto aiutata dai farmaci, loro sorridevano, mangiavano, parlavano, incuranti del nostro dolore».
Un atteggiamento che i figli possono in parte capire, «perché per lavorare in un luogo dove la morte è all’ordine del giorno ci vuole un certo distacco». Tuttavia, consigliano al personale di guardare il film del 1991 «Un medico, un uomo» almeno una volta. «Per cercare di evitare in futuro che altre persone debbano vivere ciò che abbiamo vissuto noi».