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«Non ho denunciato Chiesa ma l’UDC, le loro campagne creano sofferenza»

Samson Yemane, membro del PS, ritorna sulla denuncia che l’UDC potrebbe schivare solo grazie all’immunità parlamentare del suo allora presidente nazionale
Nato in Eritrea nel 1992, Samson Yemane è arrivato in Svizzera all’età di 12 anni.
Andrea Stern
Andrea Stern
20.10.2024 09:00

Samson Yemane dice di non avercela con Marco Chiesa. «Ce l’ho con le campagne discriminatorie del suo partito, che causano sofferenza nella popolazione straniera», afferma il 31.enne di origini eritree, membro del PS e della Commissione federale contro il razzismo, autore tramite l’Eritreischer Medienbund Schweiz della denuncia che l’UDC potrebbe schivare solo grazie all’immunità parlamentare del suo allora presidente nazionale.

Signor Yemane, perché ha denunciato l’UDC?
«Perché attraverso il mio impegno nella Commissione federale contro il razzismo e nella diaspora eritrea, mi sento molto toccato dalle questioni che riguardano le discriminazioni».

Se l’UDC scrive «un eritreo ha ucciso la moglie», è un fatto. In che modo sarebbe discriminatorio enunciare dei fatti?
«Bisogna guardare più lontano. Di fatti ne succedono tanti, ci sono anche svizzeri che uccidono. Il problema dei manifesti UDC è che citano solo le persone straniere, in maniera razzista. Non si può utilizzare sistematicamente questo metodo. Non lo dico solo io, ma anche la Commissione federale contro il razzismo».

Perché non si potrebbe utilizzare questo metodo?
«Una strategia di comunicazione che consiste nello stigmatizzare le persone straniere, mostrandole come violente o non integrate, è una strategia che discrimina le persone straniere. Attraverso questo discorso, si dà l’impressione che tutti gli stranieri siano così. Qui sta l’aspetto discriminatorio, razzista. Non si può prendere un singolo fatto e dire che tutti siano così. È per questo che abbiamo denunciato la campagna di comunicazione dell’UDC».

Se qualcuno dicesse che certi banchieri svizzeri si sono arricchiti in modo disonesto, non vorrebbe dire che tutti i banchieri svizzeri sono disonesti.
«Sì, ma la strategia dell’UDC consiste nel dire che non bisogna lasciare entrare gli stranieri perché rubano, stuprano e uccidono. Ma cosa vuol dire? Non è perché uno straniero commette dei crimini che tutti gli altri sono così. Dunque, è chiaramente discriminatorio».

È pur vero che certe categorie di stranieri sono sovrarappresentate nelle statistiche della criminalità.
«La correlazione non è causale. Le statistiche non spiegano le dimensioni strutturali. Inoltre, se una persona è spinta verso la disuguaglianza o la criminalità, è a causa del suo contesto sociale precario, non della sua cultura».

Perché certe persone senza documenti iniziano a spacciare droga? Perché non hanno un permesso, non possono essere rimpatriate ma non possono nemmeno lavorare legalmente

Cosa intende?
«Se non si danno i medesimi privilegi a tutti, è normale che certe persone entreranno in un sistema di disuguaglianza e dunque avranno più spesso a che fare con la giustizia rispetto alle persone che hanno più privilegi».

Sarebbe quindi colpa dello Stato?
«Prendiamo un esempio.Perché certe persone senza documenti iniziano a spacciare droga? Perché non hanno un permesso, non possono essere rimpatriate ma non possono nemmeno lavorare legalmente. A volte si è spinti in un sistema di disuguaglianza e si commettono atti criminali».

Lei conosce Marco Chiesa?
«Non lo conosco personalmente».

Se dovesse incontrarlo, cosa gli direbbe?
«Che la strategia comunicativa dell’UDC pone un problema, perché davanti a questi manifesti ci sono persone di origini straniere che rimangono ferite, che soffrono di mancanza di fiducia e di scarsa autostima».

In democrazia non è legittimo criticare l’immigrazione?
«Ci possono essere delle divergenze politiche, ma le critiche vanno fatte in maniera costruttiva e con rispetto. Ci vuole un discorso sensato, che permetta di dibattere nel rispetto della coesione sociale inSvizzera. Le campagne UDC, invece, hanno lo scopo di dividere».

La questione dell’immunità è un vecchio dibattito. Io penso che debba proteggere l’eletto in parlamento, di modo che lì dentro possa esprimersi liberamente senza che vi siano conseguenze giuridiche solo perché ha dato dell’estremista di destra o del marxista all’uno o all’altro

La vostra denuncia rischia di infrangersi contro il muro dell’immunità parlamentare. I deputati si difendono tra di loro.
«La questione dell’immunità è un vecchio dibattito. Io penso che debba proteggere l’eletto in parlamento, di modo che lì dentro possa esprimersi liberamente senza che vi siano conseguenze giuridiche solo perché ha dato dell’estremista di destra o del marxista all’uno o all’altro. Per contro, io sarei favorevole ad abolire l’immunità per quanto riguarda l’attività al di fuori del parlamento».

Lei propone anche di istituire una commissione extraparlamentare.
«Esatto, non devono essere gli stessi parlamentari a decidere se revocarsi l’immunità. Non si può essere giudici e giudicati allo stesso tempo. Io propongo di creare una commissione di esperti indipendenti. Sarebbero loro a dover determinare se l’immunità di un parlamentare va revocata oppure no».

Sembra un’idea sensata.
«Io vorrei che si riconsiderasse l’intera questione dell’immunità. Perché se io denuncio un partito, in questo caso l’UDC, sto denunciando il partito, non Marco Chiesa o chi per esso. Non è giusto che il partito sia protetto da un’immunità che in realtà è stata pensata per proteggere i parlamentari come individui».

Effettivamente. Ma parliamo di lei. Come persona di origine straniera, si sente svantaggiato in Svizzera? In quali ambiti c’è ancora da fare?
«In tutti gli ambiti. È un fatto che in Svizzera il razzismo strutturale è onnipresente. Le persone di origini straniere hanno meno privilegi nella formazione, nel lavoro, nella salute».

Nella salute? Intende dire che gli stranieri sono curati meno bene degli svizzeri?
«No, ma ci sono persone che lavorano nel settore della salute che possono avere propositi discriminatori, che interpretano le sensazioni delle persone straniere in maniera sbagliata. Conosce la sindrome mediterranea?».

La sindrome mediterranea è un concetto molto noto. Ci sono certi medici che ritengono che le donne afrodiscendenti esagerino le loro manifestazioni di dolore

No, mi spiace.
«La sindrome mediterranea è un concetto molto noto. Ci sono certi medici che ritengono che le donne afrodiscendenti esagerino le loro manifestazioni di dolore. È un concetto documentato, che rappresenta una vera discriminazione».

Perché certi medici pensano così?
«Perché hanno dei pregiudizi discriminatori. In questo modo non daranno gli stessi trattamenti a tutti.Questo è quello che si chiama razzismo strutturale».

Ci sono comunque tanti stranieri che in Svizzera fanno carriera. Come lei, per esempio.
«Sì, ma lei pensa che in Svizzera abbiamo tutti i medesimi privilegi per accedere ai posti di responsabilità? Ovviamente no. Non sono io a dirlo, ci sono tanti rapporti che dimostrano le disparità. È come tra uomo e donna. Oggi si hanno più privilegi se si è uomo, perché abbiamo costruito la nostra società con un certo ideale attorno all’uomo. Dobbiamo veramente rimetterci in questione. Non è perché qualche straniero fa carriera che tutto va bene. È molto più complesso. Ci vuole un grande lavoro sul razzismo strutturale, in ogni settore».

Lei torna ogni tanto in Eritrea?
«No, sono rifugiato politico. Il regime non vuole che torni in Eritrea. Non posso andarci».

Riesce a spiegare in poche parole perché qui in Svizzera voi eritrei vi menate tra di voi?
«Ci sono degli eritrei che sono arrivati in Svizzera negli anni ‘80 o ‘90, non conoscono bene l’attuale sistema totalitario in Eritrea e dunque sostengono il governo per un principio nazionalista. Omagari anche perché hanno una casa, proprietà o famiglia in Eritrea e non vogliono problemi con le autorità. Poi ci sono gli eritrei arrivati in Svizzera dopo il 2001, come me, che hanno visto cos’è la dittatura».

La comunità eritrea non è un gruppo omogeneo. Con alcuni si può discutere, con altri no

Ma perché scoppiano violenze alle feste?
«Perché gli oppositori al regime non vogliono che inSvizzera ci siano delle feste che permettono di fare propaganda e raccogliere soldi per la dittatura in Eritrea».

C’è dialogo tra le due parti o solo botte?
«La comunità eritrea non è un gruppo omogeneo. Con alcuni si può discutere, con altri no. Ad ogni modo le persone che passano alla violenza sono una piccola minoranza. E se oggi c’è violenza è anche perché le autorità svizzere si rifiutano di ascoltare le nostre preoccupazioni, che esponiamo dal 2010».

Ah, è sempre colpa della Svizzera?
«È da anni che noi chiediamo di vietare questi eventi che permettono di rafforzare il regime».

La Svizzera è un paese libero e neutrale. Non dovrebbe permettere a tutti di esprimersi?
«Lei sa benissimo che la neutralità svizzera è orientata. L’abbiamo visto con l’Ucraina e in altri momenti della storia.Se uno Stato autoritario viene in Svizzera a estorcere denaro agli eritrei per rafforzare la dittatura, la Svizzera deve essere responsabile per quanto succede sul suo territorio e vietare questi eventi».

Perché parla di estorsione?
«Già l’entrata a queste feste è molto cara. Poi sul posto viene chiesto di fare dei versamenti per mostrare solidarietà al regime».

Non è estorsione.
«È solidarietà quasi obbligata. Oltretutto gli eritrei devono pagare la famosa tassa del 2% se vogliono usufruire dei servizi consolari».

Lei la paga?
«No, io ho solo il passaporto svizzero. Ma chi non ce l’ha e deve sbrigare delle pratiche amministrative è costretto a pagare la tassa. Per questo chiediamo alla Svizzera di concedere uno statuto speciale agli eritrei, in modo che non debbano più rivolgersi all’ambasciata per ottenere i documenti personali».

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