L'esperto

«Oggi i politici si copiano tutti»

Lo studioso di comunicazione Pier Paolo Pedrini ha messo a confronto i manifesti elettorali svizzeri e italiani– Ed è arrivato a un'amara conclusione
©Chiara Zocchetti
Tommy Cappellini
Tommy Cappellini
24.11.2024 06:00

È un umorista – lo si evince dalla costruzione dei suoi libri e dalle gustose citazioni d’autore che vi posiziona tatticamente – ed è un appassionato di scacchi: combo perfetta per uno studioso di persuasione e propaganda, materie che ha insegnato all’Accademia militare svizzera (ETH di Zurigo) e che insegna in due seminari all’USI di Lugano. Di Pier Paolo Pedrini avevamo già recensito I manifesti nella Grande Guerra. Tecniche persuasive alle origini della comunicazione contemporanea (per Carocci Editore, l’articolo s’intitolava «Come ti convinco il popolo a mettersi in fila per morire», cfr. Corriere del Ticino dell’8 febbraio 2016). Pochi giorni fa, ecco apparire il suo ultimo saggio: Slogan e campagne elettorali. Parole e luoghi comuni dei politici svizzeri e italiani (in realtà c’è molto di più, ndr). Ghiotta occasione per un’intervista all’autore, dal vivo, nella nostra redazione di Muzzano.

Professore, gradisce un Gloria?
«Che cos’è?».

Un «Gloria» è un caffè corretto brandy.
«Mmh... No, grazie».

Meglio un té come lo beveva Hemingway, che fu ferito al fronte da un mortaio austriaco, nella Grande guerra?
«E come lo beveva, il caro Ernest?».

Corretto gin.
«Mmh... No, grazie. Come mai questa gentile offerta di corroboranti alcolici?».

È che pure noi, tra poco, ci caleremo metaforicamente in trincea: la delicata trincea della politica ticinese, con relativi manifesti elettoriali sovente di una ripetitività letale, peggio che un Minenwerfer...
«Ah, capisco! Beh, allora prendo un Gloria doppio! Ma se permette non farò nomi».

All’inizio del suo saggio c’è la ficcante osservazione di Ronald Reagan: «La politica è stata definita la seconda più antica professione del mondo. Certe volte trovo che assomigli molto alla prima...».
«Quando assomiglia alla prima, qualcosa non funziona anche nella comunicazione, specialmente in campagna elettorale. Ancora oggi i candidati di tutti i partiti commettono semplificazioni grossolane, appoggiandosi a schemi ripetitivi e a stereotipi, e pagandone lo scotto con la loro immagine che a malapena galleggia o che viene presto dimenticata. Quel che è peggio è che a loro, pare, va bene così».

È il tenero dramma della comunicazione politica democratica: la monotonia, il conformismo. Più propaganda che persuasione?
«Il confine tra le due è sfuocato. Propaganda all’inizio indicava la neutrale diffusione di dottrine e di idee. Essa nacque e si sviluppò insieme alla pubblicità, di cui adottò tecniche e strumenti. È tuttora valido il detto che una campagna elettorale è una campagna pubblicitaria e che, come tale, richiede di essere gestita con professionalità. L’abbiamo visto nell’ultima corsa alla Casa Bianca. Repubblicani e democratici hanno usato tecniche sofisticate. La propaganda assunse poi un’aura negativa con la Prima guerra mondiale, poiché venne utilizzata per promuovere il conflitto e per reclutare volontari. Sfida difficilissima. In quel momento si radicò un cambiamento importante: nella propaganda entrò di peso l’aspetto emotivo. La componente di persuasione cedette il posto a una sempre più sottile forma di manipolazione. Lo stesso avviene nel discorso politico».

Con la Grande guerra, di fatto, iniziò una personalizzazione della propaganda: «una fantastica occasione per te» recitavano i manifesti per reclutare volontari

Pure ora non è facile in Europa, con l’ascensore sociale inchiodato al pianoterra, convincere le persone che bisogna spendere miliardi per una guerra. E si parla di personalizzazione della politica.
«Con la Grande guerra, di fatto, iniziò una personalizzazione della propaganda: una fantastica occasione per te recitavano i manifesti per reclutare volontari, suggerendo che andare a combattere era la mossa ideale per guadagnare di più, imparare un mestiere, vedere il mondo, acquisire rispetto sociale. Il settore della comunicazione pubblicitaria ha proseguito poi su questa strada per decenni».

Adesso tutto questo si è di nuovo capovolto.
«Esatto. Cento anni fa c’era il ministero della Guerra, oggi c’è il ministero della Difesa. Per ottenere il consenso della gente, o il denaro delle tasse da riversare all’industria bellica, devi far vedere che sei tu quello che si difende: Putin dice di voler salvaguardare la Russia dai neonazisti ucraini filo-atlantici, la NATO che vuole difendersi dalla Russia... Per tacere, purtroppo, di quanto accade in Medio Oriente. Tutti si stanno difendendo da qualcuno, tanto che finisce in secondo piano la domanda: ma chi è che attacca? È una zona grigia della comunicazione politica».

Manifesti elettorali ticinesi: il suo saggio mostra come non siano tanto diversi da quelli del resto del mondo. Non è inquietante?
«Gli studi di intelligenza linguistica hanno fornito molti strumenti per intercettare i processi inconsci delle persone, si possono vedere gli effetti di alcune parole sul cervello umano, si è arrivati alla distinzione tra parole a bassa e ad alta energia. I politici, soprattutto in campagna elettorale, amano usare quelle ad alta energia. È pigrizia. Tanto che assistiamo a un effetto collaterale: usare sempre le stesse parole ad alta energia, sempre le stesse frasi smaccatamente famose e trite, o le traduzioni letterali di slogan ormai globali, sta creando una saturazione e, negli elettori, una certa confusione. Non pochi votano da rassegnati. O perché falsamente polarizzati. O non votano».

Perché, da parte dei politici, questa sottovalutazione della comunicazione come valore capace di fare realmente la differenza?
«È una deriva culturale più grande, che si manifesta con chiarezza nelle campagne elettorali. Sulla scia di quanto succede nei massmedia, dove vige la tendenza di rivolgersi al pubblico come se fosse un bambino, i politici cavalcano quest’onda per inerzia. Come quelli che continuano a usare l’ormai famigerato slogan «io ci sono», nel senso «votami che ti proteggerò». O il refrain «insieme ce la faremo». Regge fino a quando sono eletti, poi decidono da soli, spesso deviando dalle necessariamente vaghe promesse elettorali. E così il gioco, verrebbe da dire il malinteso, si perpetua. Ma un politico in possesso di una proposta alternativa, sa che il primo aspetto da curare è proprio quello della comunicazione. Che deve essere originale».

Le nuove tecnologie non aiutano. Penso al pesante uso dell’intelligenza artificiale nelle ultime elezioni in India e negli Stati Uniti.
«Anzi, l’IA uniforma e rende tutti i candidati e i loro messaggi ancora più uguali. Essendo addestrata su tonnellate di campagne precedenti, non può sfornare nulla di originale. I social, invece, servono più che altro ai militanti. Il nuovo elettore non lo peschi lì».

Però, dica la verità, riguardo gli slogan elettorali gli elettori hanno la memoria di un pesce rosso.
«Ma conoscono bene i propri problemi. Trump, più che una campagna elettorale, ha fatto entertainment: io sono una star, non un politico ha ammesso candidamente. Ma la sua campagna virtuale sarebbe servita a poco senza una parallela campagna davvero molto fisica, di risottate si direbbe in Ticino. Il nuovo elettore lo trovi meglio con il passaparola».

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