L'intervista

«Oggi ringrazio chi mi ha cacciato»

L'ex comandante delle Guardie di confine Mauro Antonini racconta la sua nuova vita (e si toglie un sassolino dalla scarpa)
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Andrea Stern
Andrea Stern
27.08.2023 06:00

Si può ripartire anche alla soglia dei 60 anni. Si può ripartire anche dopo aver dovuto rinunciare a un’importante carica a causa di un’inchiesta che alla prova dei fatti si è rivelata una bolla di sapone. «Devo ringraziare chi si è mosso in maniera scorretta nei miei confronti - dice Mauro Antonini, ex comandante delle guardie di confine -, perché alla fine mi ha permesso di sedermi un attimo, riflettere sul mio futuro e cambiare».

Signor Antonini, non le manca la conduzione delle guardie di confine?
«È un capitolo chiuso. Posso dire che quello che ho vissuto è stato un grande insegnamento. Ora sto bene così, sono sereno e trovo appagamento nella mia nuova attività».

Le accuse contro di lei si sono sgonfiate.
«È quello che lascia un po’ di amaro in bocca. Hanno creato un castello di accuse con l’obiettivo di mettermi da parte, anche perché non condividevo la riorganizzazione delle dogane. Hanno trovato dei pretesti per allontanarmi. Ma oggi posso essere riconoscente verso queste persone, perché mi hanno permesso di capire che si può affrontare la vita professionale in modo differente».

Quando passa in dogana cosa le dicono?
«Ci sono tanti agenti nuovi, ma quelli della vecchia guardia mi salutano sempre volentieri, questo mi fa molto piacere».

Lei oggi cosa fa?
«Ho aperto syste-ma, una società di consulenza, coaching e formazione. Sfrutto le mie esperienze professionali e il mio bagaglio di conoscenze per aiutare le persone ad affrontare i problemi tramite la riflessione sistematica».

Il concetto di base è che un capo o un leader devono essere in grado di analizzare una situazione e valutarne tutti gli aspetti anche se si trovano sotto pressione

Cos’è la riflessione sistematica?
«È un processo che permette di affrontare in maniera strutturata qualsiasi tipo di evento. Il concetto di base è che un capo o un leader devono essere in grado di analizzare una situazione e valutarne tutti gli aspetti anche se si trovano sotto pressione, in modo da prendere una decisione di qualità. Il mio motto è: se hai fretta, siediti».

Un paradosso.
«Sì, ma sedendosi un attimo si evita il rischio di prendere decisioni di pancia. Perché se si parte con il piede sbagliato, dopo diventa più complicato tornare indietro».

Quindi lei consiglia di sedersi.
«Sì, ma non dico di stare ore e ore a discutere. Spesso per prendere una buona decisione basta fermarsi un minuto, stare in silenzio, riflettere, inquadrare bene la situazione e poi partire in maniera logica e strutturata».

Lei dove ha imparato la riflessione sistematica?
«Sul campo. Io di formazione sono un artista, sono restauratore di stucchi e affreschi, ciò che mi permette di essere un po’ fuori dagli schemi. Nel 1990 ho cambiato attività e ho iniziato una serie di esperienze professionali nella sicurezza che mi hanno portato a riuscire a riflettere in maniera sistematica, una capacità che si è consolidata nell’esercito».

Quindi ora mette a frutto quanto imparato nelle guardie di confine?
«Sì, ma anche come ufficiale della polizia cantonale, ufficiale dello Stato maggiore generale, comandante di battaglione, capo della sicurezza dell’ambasciata svizzera ad Algeri... Sono tutti ruoli nei quali mi sono trovato a dover affrontare situazioni anche particolari e a dover ragionare in maniera strutturata».

Dopo le guardie di confine sono finito in disoccupazione. Non è stato facile. Però ho avuto la possibilità di conoscere delle persone splendide

Quando ha pensato di aprire una società?
«In sostanza, è successo che dopo le guardie di confine sono finito in disoccupazione. Non è stato facile. Però ho avuto la possibilità di conoscere delle persone splendide, con situazioni personali estremamente critiche. Io mi sono guardato dentro, mi sono detto che a quasi 60 anni avrei anche potuto dire arrivederci e grazie. Ma sentivo di avere ancora le energie e la voglia di dare qualcosa».

Ha maturato questa idea durante il periodo di disoccupazione?
«Sì. Ho fatto un’esperienza bellissima a Innopark, una struttura della Confederazione che si trova a Manno, dove vengono mandati i disoccupati che hanno avuto esperienze dirigenziali. È un programma della durata di sei mesi, durante i quali vengono insegnate varie metodologie. Inoltre, se qualcuno ha un progetto, viene accompagnato affinché possa realizzarlo. È stato un periodo davvero utile e arricchente e in questo contesto ho avuto la possibilità di consolidare il mio progetto».

Quindi lei può spendere parole d’elogio per i tanto vituperati Uffici regionali di collocamento?
«Certo! Non so se magari vista la mia posizione passata hanno avuto un atteggiamento un po’ differente rispetto agli altri, ma io posso dire che ho trovato tante persone disponibili. Ho avuto un consulente davvero umano e capace, che ha capito il mio problema e ha cercato in tutti i modi di aiutarmi. Quando sono uscito dalla disoccupazione ho scritto alla sua responsabile per fargli un plauso».

Oggi chi sono i suoi clienti?
«Il primo a manifestarsi è stato Innopark. Appena uscito dal programma, mi hanno detto che sarebbero stati interessati a ospitare dei miei corsi. Così oggi insegno selfleadership, essere capi di se stessi. Quando si è in disoccupazione è importante non piangersi addosso, non restare in balia degli altri, ma prendere in mano la propria situazione ed essere il capo di se stesso».

E gli altri clienti chi sono?
«La riflessione sistematica si può applicare a tutti gli ambiti. Però è chiaro che si tratta principalmente di persone che ricoprono ruoli di responsabilità. Per esempio, sto seguendo un dirigente che era un bravissimo collaboratore ma si è trovato in difficoltà una volta nominato tra i quadri della sua struttura. Gli sono cadute addosso nuove mansioni e responsabilità e lui ha mostrato lacune a livello di conduzione, anche perché aveva difficoltà a delegare».

Tante volte sembra che delegare sia una perdita di potere, una perdita di immagine. Invece no

Tanti capi non riescono a delegare.
«Eppure è indispensabile. Tante volte sembra che delegare sia una perdita di potere, una perdita di immagine. Invece no! Innanzitutto la delega può scaricare il dirigente e aiutarlo a dedicarsi alle mansioni più importanti. E poi permette di formare i propri collaboratori, motivandoli, dando loro dei compiti con degli obiettivi, fornendo loro i mezzi per raggiungerli ma anche delle tempistiche e dei mezzi di controllo. Delegare non è sbolognare, è una tecnica di lavoro che può essere insegnata».

Secondo lei, anche i consiglieri di Stato avrebbero bisogno di imparare la riflessione sistematica?
«Direi che nella politica in generale c’è margine di manovra. Penso al municipale che viene investito di questa carica. Sicuramente all’inizio sarà contento, si sentirà fiero. Poi andrà tutto bene finché la situazione resterà nell’ordinario, però il problema sorgerà quando dovrà gestire situazioni straordinarie».

Per esempio Paolo Beltraminelli avrebbe potuto gestire meglio il caso Argo1?
«Magari. Non ho gli elementi necessari che mi permettono di valutare come sia stato gestito il caso ed esprimermi con cognizione di causa. In linea generale, ritengo che un approccio sistematico può aiutare a limitare le situazioni critiche che si verificano.».

Norman Gobbi ha gestito bene la vicenda delle pistole rubate alla polizia all’Eden di Paradiso?
«Non sta a me giudicare le strategie di gestione e di comunicazione del consigliere di Stato. In ogni caso, una situazione del genere deve essere affrontata di petto. È importante capire subito cosa è successo e diffondere una comunicazione adeguata. Perché se non si dice nulla, si alimentano i sospetti».

Ecco, proprio quello che è successo l’altra settimana con la chiusura del valico di Ponte Tresa.
«È vero, sarebbe stato meglio spiegare in modo chiaro cosa era successo, nel rispetto dei vincoli imposti da un'eventuale inchiesta. Partendo dal presupposto che non c’erano feriti gravi, bastava dire la verità, che era uno scacciacani manipolato erroneamente. Non c’era nulla di male e non capisco il trincerarsi dietro a un laconico annuncio di un incidente. Quando ero comandante dicevo sempre che non bisognava vedere i giornalisti come avversari, ma come partner. Bisogna collaborare con loro. Perché ti possono aiutare. E se non si danno loro le informazioni, se le vanno a cercare da soli.

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