Radiografia dei piani per Gaza

Tutti hanno un progetto per Gaza, tentativi di rispondere o evitare quello pensato da Donald Trump con l’idea di una «Riviera del Medio Oriente» e la nascita - secondo gli auspici del presidente nei panni dell’immobiliarista - di una nuova Dubai sulle sponde del Mediterraneo.
Riprendiamo il filo proprio da qui, dal piano americano. The Donald, in modo brutale, ha previsto il trasferimento dell’intera popolazione in Egitto e Giordania, quindi una ricostruzione con l’aiuto di donatori (Stati Uniti esclusi) di un’area completamente devastata da mesi di guerra. Questo per togliere di mezzo Hamas e affidare la Striscia ad altri, con la collaborazione di alleati arabi. Anzi, in un primo momento, aveva anche ipotizzato un controllo diretto degli Usa. Formule vaghe, cambiate dopo aver visto le forti resistenze e forse valutato l’impatto di un tale disegno. In particolare, sulle fragili situazioni egiziane e giordane, paesi alle prese con problemi sociali/economici enormi. Attorno alla sortita della Casa Bianca sono poi circolate le possibili destinazioni per i civili costretti a partire: la regione autonoma somala del Somaliland, una parte della Siria, il Sud Sudan. Aree non certo sicure per accogliere circa 2 milioni di deportati.
Il piano israeliano
Negli ultimi giorni l’esecutivo Netanyahu ha accentuato la pressione militare a Gaza usando una strategia binaria. Da un lato l’eliminazione di qualsiasi quadro o dirigente in modo da impedire ad Hamas di governare, dall’altro la spinta all’esodo. È stato creato un dipartimento che deve agevolare la partenza volontaria di chi è disposto ad andarsene. Nelle intenzioni dell’esecutivo c’è sempre la neutralizzazione bellica del nemico e lo svuotamento. Ma, a questo punto, Tel Aviv non esclude neppure di governare direttamente la Striscia, come ha sempre chiesto l’ala destra della coalizione. Resta sempre da superare il nodo di rimettere in piedi infrastrutture, abitazioni, strade, servizi.
Il piano egiziano
Il presidente egiziano al Sisi, sotto pressione da parte di Washington che aveva evocato sanzioni in caso di rifiuto del suo progetto, si è messo al lavoro. Ed ha fornito la sua proposta, un modo per dare qualcosa a Trump. Ecco allora la possibilità di una Gaza rimessa in piedi, con fasce di sicurezza, zone cuscinetto, nuove case ma senza che i palestinesi se ne debbano andare. Quanto ai finanziamenti saranno gli Stati arabi a farsene carico, a tal fine hanno approvato un mega budget e il piano stesso. Anche qui c’è sempre il nodo su chi comanderà nella «nuova» Striscia.
Gli attori esterni non vogliono Hamas, sperano in un’alternativa, anche se sanno bene che l’Autorità palestinese guidata da Abu Mazen dovrà faticare per imporre l’ordine in una realtà dove gli integralisti islamici sono stati sempre percepiti come meno corrotti. Le mosse del Cairo, secondo indiscrezioni difficili da valutare, avrebbero provocato l’ira degli Emirati, probabilmente gli unici a condividere la «visione» di The Donald. L’uomo forte di Abu Dhabi, il principe Mohammed bin Zayed, ha strumenti di persuasione sugli egiziani, ovvero l’assistenza economica e gli investimenti che rappresentano ossigeno. La monarchia del Golfo ogni tanto rispolvera un personaggio che viene da Gaza ma oggi se sta in territorio emiratino: Mohammed Dalhan, ex capo della sicurezza palestinese. Non è la prima volta che si fa il suo nome come la figura alla quale affidare la Striscia. Un uomo per tutte le stagioni. Ed è da sottolineare che in una nuova esternazione, l’inviato speciale della Casa Bianca, Steve Witkoff ha usato toni sprezzanti nei confronti degli egiziani.
Nel mezzo sono uscite voci incerte. Come l’esilio di 3 mila militanti e dirigenti di Hamas (opzione suggerita dai giordani) o lo spostamento temporaneo di 500 mila palestinesi nel Sinai egiziano, subito però negato dal Cairo. Ma è da Gaza che sono arrivate novità imprevedibili: gruppi di palestinesi hanno inscenato da giorni manifestazioni di protesta contro il movimento armato, chiedendone la partenza e invocando la fine della guerra. E questo nonostante le minacce di ritorsioni. Un gesto di sfida raro, un segnale di disperazione ma anche di cambiamento in una zona dominata dai mujaheddin.