Raffaele Tromiro, quando la pizza è buona anche lontano da Napoli
La ricetta di un successo alla fine è fatta di frasi semplici, come gli ingredienti di una pizza. Raffaele Tromiro la sintetizza così: «Chi lavora con passione, con amore, non sente la fatica ma prova l’emozione di fare qualcosa di stimolante, sente la voglia di andare sempre avanti in una sfida con se stesso». Tromiro rappresenta la quarta generazione di pizzaioli. Pizzaiolo suo padre, suo nonno e il suo bisnonno. Lui, dopo aver studiato all’istituto alberghiero ha ottenuto la laurea in chimica. E ha trasferito studi e competenze nella sua «bottega» che ha chiamato Napulé, in omaggio alla sua amatissima città natale, e che ha aperto a Zurigo. Qui ultimamente sono arrivati i severi critici del Gambero Rosso, quelli che ogni anno compilano la guida dei buongustai, la «Top italians restaurants guide». E nell’assegnare i tre «spicchi» (il punteggio massimo) hanno scritto che da Tromiro hanno «toccato con mano un impasto arioso e fondente, lungamente lievitato, impreziosito da ingredienti di altissimo profilo, frutto di una ricerca costante e indipendente». Risultato: Napulé è stata giudicata la «Pizzeria dell’anno», la migliore fuori dall’Italia.
L’insegnamento del padre
Raffaele Tromiro per raccontare questa tappa del suo percorso di pizzaiolo-imprenditore (oggi ha una squadra di circa 60 collaboratori, fa attività di «food truck» e «take away» e ha locali a Zurigo, Glarona e Locarno) srotola la sua storia personale tornando al luogo dove la pizza - riconosciuta patrimonio dell’Unesco - è diventata regina: Napoli. «Vengo da un quartiere periferico come Ponticelli-Scampia, ma la mia carriera, come quella di tanti ragazzi, è la dimostrazione che anche in aree difficili chi ha volontà può emergere», racconta Tromiro. Lui ci è riuscito. «Mio papà, anche quando studiavamo, ha sempre preferito farci lavorare per toglierci dalla strada. Io mi sono diviso fra i libri e la pizzeria, lavorando sette giorni su sette. E questo impegno non mi è mai pesato, anzi».
Tromiro, che fa parte dall’Associazione Verace Pizza Napoletana, sin dall’inizio ha sentito una grande responsabilità. «Perché la nostra famiglia - racconta - porta avanti una grande tradizione e quando sei lontano da Napoli devi essere orgoglioso di far vedere e assaporare un piatto ricco di storia. D’altronde noi non ci siamo improvvisati pizzaioli. E arrivare in Svizzera, lontano da Napoli, e proporre un prodotto che piace ed è apprezzato è una sfida ancora più avvincente, dove è vietato barare. Gli svizzeri viaggiano tanto, quasi tutti sono stati in Italia e hanno mangiato una margherita o una marinara e capiscono subito se si tratta di una eccellenza o di cibo di scarsa qualità».
Il primo locale nel 2015
In Svizzera è arrivato quasi per caso perché in un ristorante serviva una persona con la sua professionalità. Poi nel 2015 ha aperto il suo primo locale a Meilen. E sin da subito ha pensato a un suo progetto. «Abbiamo cercato i migliori prodotti e calcolato i tempi di trasporto dalla Campania. Così oggi abbiamo capito che è possibile importare la mozzarella napoletana. I pomodori, invece, li selezioniamo direttamente sui campi, prendiamo dei campioni, analizziamo gli zuccheri, l’acidità, le caratteristiche organolettiche in laboratorio e se rispettano gli standard che abbiamo fissato acquistiamo l’intera produzione».
Da chimico Raffaele Tromiro non lascia nulla all’improvvisazione. «In laboratorio - spiega - abbiamo messo a punto anche la farina svizzera «Verace Napulé» insieme a Dominic Meyerhans, mugnaio da sei generazioni del Cantone Turgovia e Ceo di Meyerhans Mühlen AG. È il risultato della precisione svizzera e della tradizione napoletana, ma soprattutto di tanto studio. Durante il lockdown abbiamo creato un unico centro di produzione per l’impasto, che abbiamo cercato di migliorare sempre più studiando l’effetto del sale, cercando di usare pochi zuccheri, lavorando sugli enzimi della farina per ricavare dalla fermentazione un impasto soffice e leggero. La nostra pasta riposa 48 ore. E questo per proporre in tavola una pizza - cotta a 500 gradi per massimo 90 secondi - ad alta digeribilità ma subito riconoscibile al palato per la sua bontà e allo sguardo per i classici bordi alti. Ma non ci fermiamo qui, ogni giorno sperimentiamo, proviamo nuovi prodotti, accostamenti e ricette. In questo nostro lavoro abbiamo una sola costante: la tradizione napoletana, che non va mai intaccata».
Una questione di famiglia
A Napoli ci sono tredici locali (ognuno sostiene che la propria pizza sia la migliore del mondo) che hanno oltre un secolo di storia. Sono, insieme ai giovani emergenti, i testimoni di un’antica pietanza, nata nei vicoli tra miseria e nobiltà, tramandata di generazione in generazione. Una delle famiglie più celebri, perché ha locali in diverse parti del mondo, è quella dei Sorbillo, con Gino volto noto anche grazie a diverse trasmissioni televisive. O Alfredo Forgione, primo pizzaiolo nominato Cavaliere della Repubblica. Poi ci sono i Condurro dell’Antica Pizzeria Da Michele nata nel 1870. La celebre pizzeria dei Mattozzi ha iniziato la sua attività invece con Luigi nel 1852 ai Banchi Nuovi. Più vecchia ancora è Port’Alba che sembra esista come bottega addirittura dalla metà del 1700 (esattamente 1738) e che prima della fine della Seconda guerra mondiale è passata dalla famiglia D’Ambrosio ai Luciano. Un locale importante come Brandi nasce a inizio ottocento, qui Raffaele Esposito inventa la celebre Pizza Margherita. Ciro a Santa Brigida, nata nel 1850, della famiglia Pace, è arrivata alla quinta generazione di pizzaioli. E la lista potrebbe continuare.
Un’arte antica e popolare
La tradizione è l’elemento che ha consentito alla pizza, anzi all’arte dei pizzaioli napoletani, d’essere riconosciuta dall’Unesco «un capolavoro culinario» e di venire inserita nel 2017 nella lista dei Patrimoni Mondiali dell’Umanità. Per arrivare a questo riconoscimento ci sono voluti secoli, visto che le prime botteghe a Napoli sono nate nel Settecento e poi, con l’arrivo del pomodoro dalle Americhe, c’è stata una forte evoluzione. La pizza, che il famoso antropologo napoletano Marino Niola ha definito «un cibo democratico, solidale e sostenibile», è il frutto di un rito sociale e di una cultura collettiva, quasi una festa. Perché comprende - ha fatto notare Niola - «gesti, canzoni, espressioni visuali, gergo locale, capacità di maneggiare l’impasto, esibirsi e condividere».
Fare la pizza lontano da Napoli è ancora più difficile. «Sì, ma non impossibile e noi lo abbiamo dimostrato», dice Raffaele Tromiro. Perché alla fine tutto si riduce a pochi gesti: «Il risultato? Lo vedi - conclude Raffaele Tromiro - quando arriva un cliente che magari è nervoso, ha il volto scuro e al primo boccone gli si accende un sorriso sul volto. Quello, al di là dei riconoscimenti istituzionali, è il nostro premio più grande».