Sport

Renzo Ulivieri: «Il mestiere di allenatore? Lo sconsiglio»

Renzo Ulivieri si è incatenato ai cancelli della FIGC per la sua categoria, ma alle nuove generazioni augura di fare altro
Ulivieri durante la protesta del 2011 in cui si incatenò ai cancelli dell FIGC per protestare a tutela degli allenatori del calcio minore
Marco Ortelli
29.09.2024 15:42

«Pronto? Scusi se non le ho risposto subito, ma ero in collegamento con delle docenti, sa, nei nostri corsi a Coverciano abbiamo sei ore di calcio femminile…». Con questa frase si può caratterizzare Renzo Ulivieri (83), allenatore per quasi 60 anni - dal calcio giovanile a quello professionistico maschile a quello dilettantistico femminile -. L’uomo «giusto» per presiedere l’Associazione Italiana Allenatori Calcio AIAC e fungere da direttore della Scuola allenatori della Federazione Italiana Giuoco Calcio FIGC di Coverciano. Lo abbiamo raggiunto per farci raccontare chi per mestiere ha la valigia sempre a portata di mano.

Iniziamo allora dalla fase conclusiva della sua carriera, quando si è trovato ad allenare squadre femminili.
«Fu una combinazione, l’allenatore della squadra del mio paese, la Scalese di San Miniato, era malato così mi chiesero di dare una mano. Al mio arrivo nello spogliatoio dissi, «bambine, mi sono un po’ informato, mi hanno detto che ci sono delle particolarità nel rapporto tra allenatore e ragazze… Vedete, io ho un problema, siccome sono anziano (allora aveva 73 anni, ndr) e le arterie hanno cominciato a indurirsi, non ce la faccio ad adattarmi a voi, adattatevi voi a me che si fa prima». Così ho allenato come nel maschile e la cosa ha funzionato. Poi, certo ci sono delle particolarità che bisogna curare».

In campo maschile, si è seduto su parecchie panchine - Sampdoria, Cagliari, Bologna, Napoli, Parma, Torino… - ha vissuto promozioni, retrocessioni… esoneri. Oggi, un allenatore non fa a tempo a dire «buongiorno» a una squadra che già deve dirle «addio» o «arrivederci»...
«L’esonero c’è sempre stato, probabilmente in Italia siamo stati maestri, oggi probabilmente il fenomeno è un pochino diverso. Nelle società arrivano presidenti che provengono da più parti del mondo, per valutare gli allenatori si adoperano algoritmi, roba che conosco poco perché non la voglio conoscere. Spero che l’allenatore rimanga ancora umano come pure la sua valutazione, il che vuol dire sentimenti e tutti quegli aspetti che negli algoritmi non si trovano. Insomma, che in panchina non finisca per andarci un robot».

Alla scuola allenatori di Coverciano c’è magari anche anche un corso per elaborare la perdita… di una panchina?
«Come associazione di allenatori diamo assistenza psicologica, abbiamo una psicologa che è a disposizione di tutti gli allenatori per qualsiasi caso, ma soprattutto per eventi traumatici come un esonero. L’esonero è un fatto traumatico per tutti, ti arriva il licenziamento, torni a casa e devi parlarne coi figlioli, con la moglie, poi i giornali… Elaborare un insuccesso non è semplice. Chi non ce la fa a rialzarsi ha un problema, chi perde sicurezza ha un problema. Io dico, dopo l’esonero ci sono 15 giorni un mese di tempo in cui bisogna pensare a rialzarsi, questa è la componente psicologica. Poi deve entrare in campo la ragione, analizzare gli errori che potremmo avere fatto, e ne abbiamo fatti. Allora occorre impiegare il tempo per aggiornarsi, andare a vedere come lavorano gli altri è importante».

Se non altro, un allenatore apprende a vivere alla giornata…
«Vivere alla giornata mi sembra un po’ troppo relativo. L’allenatore, secondo la mia esperienza, e seguendo quello che si insegna, deve lavorare come se in una società avesse la prospettiva di restarci a vita. Perché? Perché vuol dire gettare le basi di lavoro. Credo che un allenatore debba pensare a questo, allora fa un buon lavoro. L’allenatore non può vivere alla giornata, se non vive male la cosa».

Sugli allenatori gravita una grande pressione. “Se vinco sono un genio, se perdo un cretino”, ha affermato Alessandro Nesta recentemente, sull’orlo di un licenziamento a Monza. La stampa, i tifosi allo stadio e sui social. Lei come gestiva la pressione?
«Vivendola, in carriera ho fatto anche delle cose diciamo non regolari, ad esempio quando la Federazione italiana aveva imposto l’obbligo di non parlare con i tifosi. Io coi tifosi ci parlavo, e contravvenivo a quelle regole perché c’era una regola superiore, la Costituzione, credo che questa stia sopra a tutte le regola calcistiche federative, per cui uno è libero di parlare con tutti i cittadini e mi sentivo un cittadino… Però capivo che le pressioni c’erano, che ci dovevo convivere, e cercavo di farlo nel migliore dei modi. Oggi, quando sono ai corsi di Coverciano dico questo: un allenatore lo si vede come entra nello spogliatoio non quando ha vinto, ma dopo tre sconfitte o una serie di partite senza o con pochi punti. Se rientra ed è piegato, allora può essere un problema, nello stesso tempo non può essere esaltato, perché vorrebbe dire che i giocatori non ci credono, se invece entra nello spogliatoio con equilibrio, allora sì…».

C’è quindi un profilo ideale di allenatore?
«No, noi abbiamo la fortuna… la ritengo tale, che i nostri allenatori non escono con lo stampino. Si dice loro, siate voi stessi, perché tanto, dopo tre giorni i vostri calciatori vi conoscono e fingere non si può fingere. Se uno è timido, è inutile che faccia il duro. Allora noi si adopera una frase: l’allenatore bisogna che sia duro senza perdere la tenerezza. La frase non è mia, ma è ripresa da Ernesto «Che» Guevara…».

In effetti lei anche politicamente schierato, a sinistra. Ogni tanto emerge la voce di qualche giocatore che minaccia lo sciopero per via dell’eccesso di partite. È immaginabile uno sciopero degli allenatori per eccesso di esoneri?
«Uno sciopero degli allenatori non lo vedo, anche perché, facendo una battuta sorridendo, dopo un licenziamento c’è un’assunzione di un allenatore in attesa di lavoro, per cui come associazione degli allenatori ci verrebbe da premiare quei presidenti che esonerano perché creano anche posti di lavoro. Stiamo scherzando, naturalmente, su un momento doloroso per la carriera di un allenatore. Poi uno sciopero perché si gioca troppo… beh, noi allenatori insieme ai calciatori ci saremo sempre».

Consiglierebbe a qualcuno il mestiere dell’allenatore?
«In prima battuta dico no. Io lo sconsiglio perché all’inizio metto le malattie professionali: l’insonnia, perché quando si comincia a fare l’allenatore si dorme meno, il mal di stomaco… Detto questo c’è l’aspetto affascinante del mestiere. Mi sarà capitato tre volte in carriera, quando succede che sei in panchina e della tua squadra pensi «perché non parli!», come si narra abbia esclamato Michelangelo davanti al suo Mosè, estasiato dalle forme tanto realistiche… Cioè vivere una partita come un’opera d’arte. Succede raramente ma può succedere».

In conclusione, visto che lei coi tifosi ha sempre parlato, lo è anche diventato?
«Sono nato tifoso della Fiorentina e rimango tifoso della Fiorentina... Tuttavia, in questo ultimo periodo ho avuto problemi di salute, ho allora pensato a come volevo essere vestito da morto e ho detto, voglio la tuta del Bologna - ce l’ho, l’ho messa da parte - e un fischio, perché non si sa mai, la vita dell’allenatore potrebbe continuare anche da morto...».

In questo articolo: