Rösti ha ragione, va introdotto il diritto d’autore
Fa bene il consigliere federale Albert Rösti a dire d’essere preoccupato per la situazione dei media che sono «sempre più sotto pressione». E ha fatto bene a citare, durate il Swiss Media Forum a Lucerna, il calo di oltre il 20% per cento del numero di giornali in Svizzera e il dimezzamento delle tirature negli ultimi quindici anni. Ha fatto bene, perché una informazione sana, capace di arrivare a tutti gli strati sociali, capace di fornire notizie e commenti, approfondimenti e interviste, può stimolare lo spirito critico e fornire strumenti di conoscenza per prendere decisioni individuali consapevoli.
Un processo in Svizzera è necessario, visto che per effetto della democrazia diretta si è chiamati spesso a dire la propria con il voto popolare. Eppure oggi è sempre più difficile catturare lettori perché se i giornali da una parte sono stati travolti dalla rivoluzione digitale, dall’altra hanno visto indebolirsi enormemente uno dei suoi canali di entrate, la pubblicità che viene assorbita dai giganti di Internet, in particolare i diversi social, e da Google. Giganti che si muovono come facevano i cinesi anni fa, quando copiavano e riproducevano alla perfezione capi d’abbigliamento o oggetti che rappresentavano una lunga storia industriale, il genio e l’intuizione di tanti creativi e imprenditori, e poi li rivendevano a prezzi stracciati creando un miliardario mercato del «falso». Lo stesso fanno i social, rilanciando notizie che le redazioni – fatte di donne e uomini che ogni giorno si dannano l’anima per rendere un servizio onesto - trovano, elaborano, verificano, scrivono e poi presentano graficamente ai loro lettori.
Ora molti Stati stanno giustamente presentando la fattura, alcuni mettendoci sopra gli arretrati, ai gruppi che fanno capo ai social. E qui si inserisce una ipotesi annunciata da Rösti a Lucerna: l’idea di introdurre anche nella Confederazione il «diritto di protezione» affine, cioè una sorta di diritto d’autore che permette agli editori di presentare il conto ai giganti del web che rubano contenuti. Un’idea (a dare una base legale alla proposta sarà il Dipartimento federale di giustizia) che arriva in ritardo ma che è quanto mai indispensabile, che va tradotta in norma in fretta e resa operativa per spezzare questa spirale.
Una spirale che anni fa era alimentata anche da molti giornali e giornalisti, che poi hanno capito che i social non erano poi quella grande opportunità che si pensava in origine. Lo ha spiegato bene Ben Smith, giornalista che ha fondato «Semafor» e ha tenuto per anni sul New York Times una rubrica sui media digitali, e che è stato recentemente in Italia al Salone del libro di Torino per presentare il suo saggio «Traffic. La corsa ai clic» (Edizioni Altrecose). In passato, ha fatto notare in un’intervista al Corriere della sera, «c’era un matrimonio fra news e social media, ora è divorzio. Ma è anche un’opportunità per gli editori: offrire marchi di fiducia nell’era del deepfake e dell’intelligenza artificiale».
Inoltre, e si è visto con i recenti conflitti in Ucraina e in Medio Oriente, i social sono serviti per veicolare messaggi incontrollabili e «fake news» di apparati statali per influenzare l’opinione pubblica. Ecco perché l’informazione libera è una garanzia di democrazia.