Sanremo cambia, ma per finta
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Tutto è ormai pronto - o quasi - per il 75. Festival di Sanremo, il tradizionale momento televisivo di fine inverno che, a dispetto dei suoi critici, ogni anno riesce in un’impresa che nessun altro, a livello internazionale, riesce ad eguagliare. Non tanto in termini assoluti di ascolti - il suo principale «figlio», l’Eurovision Song Contest, cattura infatti una platea enormemente superiore - quanto per l’impatto che ha all’interno del suo territorio.
Sarà per tradizione, sarà perché sostenuto da un battage che non ha eguali in nessun campo dell’intrattenimento, durante la sua settimana di programmazione Sanremo ferma letteralmente l’Italia, incollando davanti agli schermi - televisivi e non - milioni di persone, monopolizzando l’universo mediatico e relegando ogni altro accadimento in secondo piano.
Un grandioso «mezzo di distrazione di massa», potremmo dire citando i semiologi, ancor più straordinario in quanto si tratta di un ibrido dalla difficile definizione: il Festival di Sanremo non è più da tempo un vero concorso canoro in considerazione del fatto che buona parte di chi vi partecipa sta al canto quanto una locomotiva alla pasticceria. Non è più neppure una competizione musicale visto che la musica è solo un componente della sua gigantesca macchina (tra l’altro sottoposta a giudizi che esulano dalla critica vera e propria) e che l’aspetto competitivo negli ultimi anni si è ridotto al lumicino.
Cos’è dunque Sanremo? Un mastodontico spettacolo televisivo che - e questa è la sua grande forza - ha saputo evolversi molto più di altri «format» alla nuova realtà di un intrattenimento «leggero», fatto più di apparenza che di sostanza, di contenuti e tempistiche sempre più veloci in modo da interfacciarsi perfettamente con le moderne piattaforme comunicative dove domina la sintesi e l’abilità nel riuscire a catturare l’attenzione generale in pochissimi secondi e dove l’approfondimento è pressoché bandito.
Sanremo è dunque un gigantesco videoclip retto ancor più che in passato dal gossip, anch’esso cambiato sia nella forma che nella sostanza, e da polemichette e casi creati in modo da alimentare quel flusso continuo che tiene in piedi il suo gigantesco castello di carte. Dove sia la musica sia la direzione artistica hanno sostanzialmente perso buona parte del loro appeal. Le canzoni scelte infatti rispondono più a quei criteri algoritmici che regolano oggi il mondo del pop che a quell’artigianato d’autore che è stato per decenni alla base dell’industria della canzone. Idem per quanto riguarda l’indirizzo artistico dell’evento che essendo legato ad una serie di vincoli (aziendali, commerciali, promozionali, ecc…) riduce al minimo le possibilità di movimento del timoniere cui è permessa solo qualche piccola personalizzazione a patto che non influisca sul quadro generale.
Tutto ciò per dire che l’archiviazione dell’era Amadeus - abilissimo nel trasportare il Festival dall’era della televisione tradizionale a quella di TikTok - e l’affidamento della guida al più «tradizionalista» Carlo Conti, i cui programmi hanno da sempre un’impronta nostalgico-revivalistica, non cambierà di una virgola l’assetto e l’andamento dell’estenuante e interminabile settimana televisiva che ci attende. Settimana che per chi ama questo tipo di intrattenimento continuerà a rappresentare un «must», chi invece sperava in un ritorno ad un prodotto più artistico, dovrà rassegnarsi e consumare i polpastrelli sul telecomando e sul telefonino nel tentativo di sfuggire al suo potente tsunami mediatico.