L'analisi

Se Biden si ritira non c'è un piano B

«Il potere logora chi non ce l’ha», diceva l’ex primo ministro italiano Giulio Andreotti. Dopo il dibattito tra Joe Biden e Donald Trump, viene da chiedersi se il potere non logori anche chi lo esercita.
©Carolyn Kaster
Redazione
30.06.2024 10:47

Di Elisa Volpi*

 «Il potere logora chi non ce l’ha», diceva l’ex primo ministro italiano Giulio Andreotti. Dopo il dibattito tra Joe Biden e Donald Trump, viene da chiedersi se il potere non logori anche chi lo esercita. Biden, poco più anziano di Trump, è apparso visibilmente più vecchio: la voce ovattata, il ritmo uniforme e le argomentazioni incomplete hanno segnato la sua performance.

Una performance che ha sollevato dubbi sulla sua capacità di svolgere il «lavoro più duro del mondo». Anche sui temi forti, come l’aborto, Biden non è riuscito ad attaccare un Trump sorprendentemente composto e messo a freno dal formato del dibattito, quasi sottotono, né a smascherare le sue bugie, nonostante ben trenta affermazioni false rilevate dalla CNN.

Il risultato è un Partito Democratico americano in modalità di crisi, con vari esponenti che hanno apertamente criticato la prestazione di Biden (definita «dolorosa» e «disastrosa»), rivelando perplessità sulla capacità del loro candidato di vincere le elezioni. È cominciata quindi una discussione nel partito sull’opportunità di lasciare che Biden corra di nuovo. La sua candidatura infatti verrà ufficializzata soltanto durante la Convention del partito che si terrà a fine agosto. Ma cambiare candidato non è così semplice. Anzitutto, perché si tratterebbe della prima volta nella storia che un candidato presidente viene sostituito, se escludiamo l’elezione del 1912, quando Theodore Roosevelt, scontento dell’operato dell’allora presidente e collega di partito, William H. Taft, finì per spaccare i Repubblicani, fondando una nuova formazione politica. Inoltre, non dobbiamo dimenticare che Biden ha nettamente vinto le primarie (anche se scarsamente competitive) e ha il sostegno dei delegati. L’unica opzione sarebbe una sua rinuncia, improbabile al momento.

Non ricandidare un presidente in carica è rischioso: il presidente gode di maggiore riconoscibilità, dimostrata esperienza e garantisce la continuità nell’azione di governo. Inoltre, non confermare Biden equivarrebbe a un’ammissione di fallimento della leadership e del partito stesso. Non è quindi un caso che siano state eccezionali le occasioni in cui presidenti in carica che non abbiano corso per un secondo mandato (in epoca contemporanea si contano solo Harry Truman e Lyndon Johnson). Sono poi rari i casi di presidenti non riconfermati alle urne: dal 1948, su 12 elezioni, solo in 4 non hanno rivinto la competizione, con Trump l’ultimo esempio. Ripresentare il presidente in carica quindi ripaga e contribuisce a rafforzare l’immagine del partito. Senza dimenticare che la campagna elettorale è di fatto già cominciata e cambiare candidato in corsa vorrebbe anche dire partire in svantaggio di quasi sei mesi sull’avversario. Insomma, la storia e la razionalità sembrano essere dalla parte di Biden.

In queste elezioni straordinarie in cui per la prima volta in quasi 70 anni (l’ultimo caso è del 1956) si scontrano gli stessi due candidati presidenziali dell’elezione precedente, entrambi i concorrenti in fondo godono del vantaggio dell’incumbent. Vedremo quindi se i Democratici saranno così coraggiosi (o scellerati) da pretendere un passo indietro di Biden. Ma qualsiasi decisione prenderanno non sarà indolore.

*Elisa Volpi è professore assistente di Scienze Politiche alla Franklin University Switzerland

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