«Senza l'uomo il pianeta starebbe subito meglio»

Ha studiato i rettili e conosce tutto dei dinosauri. Ha scritto saggi e condotto ricerche che lo hanno portato a diventare uno dei più conosciuti paleontologi europei. Ma Cristiano Dal Sasso è anche uno studioso molto attento ai cambiamenti climatici.
È partita nelle scorse settimane al Museo di Storia Naturale di Lugano la mostra «La mano del clima e la mano dell’uomo». Cosa si vuole raccontare in questa esposizione?
«Questa mostra prende spunto dall’esposizione cronologica di resti fossili rinvenuti soprattutto nel bacino del fiume Po dopo il periodo di piena. Sono ossa isolate, ma che documentano l’alternanza del clima negli ultimi 200.000 anni, attraverso periodi glaciali e interglaciali, rappresentati da specie di clima freddo e di clima più temperato o caldo rispetto all’attuale. Il messaggio principale che vorremmo trasmettere ai visitatori riguarda anche il presente e il futuro: oggi l’essere umano, dominatore del pianeta, sta cambiando il clima con una velocità innaturale, tale da impedire l’adattamento delle specie animali e vegetali. Di fatto, stiamo causando la sesta estinzione nella storia della vita sulla Terra».
Il logo della mostra sembra raffigurare due scheletri diversi che si fondono in uno solo. Qual è il suo significato?
«È stata un’idea nata osservando gli esemplari esposti. Il logo mostra la testa di un bovino selvatico affiancata a quella di un bovino domestico. Il Bos primigenius, l’antenato dei bovini domestici, aveva grandi corna a forma di lira, molto diverse da quelle delle moderne razze allevate. Questo simbolo rappresenta il passaggio dall’equilibrio naturale alla trasformazione operata dall’uomo sugli ecosistemi, e invita a riflettere sulle nostre responsabilità nei confronti dell’ambiente».
Nel titolo specificate chiaramente «La mano dell’uomo». Eppure l’elemento antropologico nei cambiamenti climatici è fonte di forti discussioni, con una larga fetta di persone che sostiene che, indipendentemente dall’intervento degli uomini, certi fenomeni siano ciclici.
«È vero che i cambiamenti climatici ci sono sempre stati e la nostra mostra documenta quelli degli ultimi 200.000 anni. Tuttavia, la storia della Terra è molto più lunga e ha visto molte altre variazioni climatiche. La differenza sostanziale è che questi cambiamenti sono avvenuti in tempi geologici, ossia molto lentamente. A parte eventi catastrofici come la caduta di meteoriti, la maggior parte delle variazioni climatiche sono state graduali, consentendo alle specie di adattarsi. Oggi, invece, i cambiamenti sono rapidissimi e causati principalmente dall’uomo. Questo rende impossibile l’adattamento per molte specie, portando a un drastico declino della biodiversità».


L’uomo è davvero così invasivo?
«Sì, e anche più di quanto spesso ci rendiamo conto. Abbiamo occupato la quasi totalità delle terre emerse e, attraverso l’allevamento intensivo, modifichiamo gli ecosistemi su scala globale. La fauna selvatica oggi rappresenta una percentuale bassissima degli animali viventi rispetto agli animali allevati per il nostro consumo. Bovini, suini e pollame costituiscono la maggior parte della biomassa animale del pianeta. Questi stessi allevamenti contribuiscono alle emissioni di gas serra, aggravando il riscaldamento globale e rompendo l’equilibrio naturale della Terra».
Viviamo quindi in una società disfunzionale dal punto di vista del consumo di carne e delle sue conseguenze ambientali?
«Esattamente. Esiste anche una grande sproporzione tra Paesi ricchi e poveri. I Paesi ricchi importano enormi quantità di carne da nazioni in via di sviluppo, causando deforestazione su larga scala, come avviene in Brasile per l’allevamento di bovini destinati al mercato europeo e nordamericano. Il nostro modello di consumo è insostenibile: mangiamo troppo e sprechiamo molto. Questo non solo danneggia l’ambiente, ma anche la nostra salute, contribuendo a obesità, malattie cardiovascolari e altre patologie legate alla sovralimentazione».
Se i cambiamenti climatici sono inevitabili, ha senso ridurre il nostro impatto ambientale?
«La Terra si è sempre riassestata, ma ciò avviene su scale temporali enormi. Il problema è che oggi siamo noi la causa principale dei cambiamenti climatici. Ridurre il nostro impatto significa dare più tempo agli ecosistemi per adattarsi e prevenire catastrofi ambientali irreversibili. Abbiamo la tecnologia per diminuire le emissioni di CO2, aumentando le fonti di energia rinnovabile e riducendo il consumo di combustibili fossili. Serve un impegno collettivo, specialmente da parte dell’industria e dei trasporti pubblici, per fare la differenza».
Ma se l’uomo dovesse scomparire improvvisamente, la Terra si riequilibrerebbe?
«Paradossalmente, sì. Se gli esseri umani scomparissero, le emissioni di gas serra calerebbero drasticamente e la temperatura globale si stabilizzerebbe. Anche i mari, oggi compromessi dall’aumento delle temperature, tornerebbero a un equilibrio più naturale. Tuttavia, il punto non è far sparire l’umanità, ma trovare un modo per convivere in armonia con il pianeta».
Guardando al futuro, come potrebbe cambiare il nostro territorio nei prossimi 200-300 anni?
«Se lo sviluppo urbano continuerà con il ritmo attuale, assisteremo a un’ulteriore cementificazione delle zone pianeggianti e collinari, con un forte consumo di suolo. Tuttavia, negli ultimi anni abbiamo anche osservato un fenomeno opposto: molte aree montane stanno tornando a essere foreste, a causa dell’abbandono dei pascoli. Questo potrebbe portare a un contrasto sempre più marcato tra aree urbane densamente popolate e zone naturali quasi incontaminate. Dove però ci sarebbe una grandissima quantità di cinghiali e altre specie che certamente non manterrebbero bene queste foreste, che rimarrebbero abbandonate».
Insomma, fare gite fuori porta potrebbe diventare più complicato rispetto a oggi.
«L’aumento delle strade ci porterà comunque ovunque, anche alla ricerca della natura. Perché di quella non potremmo mai farne a meno. Proprio per questo dovremmo rispettarla e apprezzarla un po’ di più, visto anche la meravigliosa regione in cui viviamo».