«Siamo rinchiusi in una prigione fatta di social, dalla quale potremmo subito uscire»
Li chiama microcosmi, ma in realtà c’è un intero universo dietro le opere di Manuel Walter. Uno dei giovani artisti più interessanti nel panorama ticinese e svizzero, già premiato in importanti manifestazioni come il Volvo Avant Young e le Stanze dell’Arte. Fino allo scorso 23 novembre, Walter è stato protagonista alla Galleria Doppia V di Lugano di Microcosmi Virtuali: una serie di installazioni che rappresentano in modo quasi brutale e inquietante il mondo (reale) di oggi. Un mondo popolato da soggetti incolori immersi nel freddo, nella nebbia e sospesi nel vuoto, rinchiusi in gabbie che ne decretano ufficialmente la prigionia. Soggetti sempre più schiavi dell’universo virtuale e della tecnologia, ormai del tutto omologati alla massa.
Che sensazioni rimangono alla fine di una mostra personale?
«È stata una bellissima esperienza, soprattutto per la ricettività del pubblico, con il quale ho dialogato molto confrontandomi sulla loro interpretazione delle opere. La proposta era un po' fuori dagli schemi, decisamente diversa da ciò che ci si aspetta da una galleria. Ho cercato di proporre qualcosa di più sensoriale, che potesse coinvolgere il pubblico su diversi livelli di lettura. All'inizio può sembrare un gioco, ma poi c'è molto di più dietro ogni elemento, che parla di noi stessi e della società».
In questo senso, le gabbie dentro le quali hai costruito i microcosmi hanno un forte significato.
«La gabbia è una metafora della prigionia. Non solo fisica, bensì mentale. Noi siamo 'rinchiusi' in gabbie invisibili, create dalla tecnologia, dalle pressioni sociali e dalle aspettative che ci vengono imposte. È interessante come, pur essendo fisicamente liberi, troppo spesso ci ritroviamo intrappolati in un sistema che ci condiziona. Non è un caso che gli omini di plastica che popolano i mondi che ho creato sono abbastanza piccoli da poter oltrepassare le sbarre, eppure non lo fanno: restano dentro non perché non possono uscire, ma perché si sono adattati a rimanere prigionieri».
Le tue opere hanno un forte legame con la materia, tuttavia emerge anche un interesse verso le nuove tecnologie e il mondo virtuale.
«Il mio lavoro riflette proprio su questa dicotomia. Ho sempre avuto un interesse per la materia fisica, ma, con l’avvento del mondo digitale, c’è anche la necessità di indagare il suo impatto. Nelle mie opere cerco di utilizzare materiali fisici, oggetti che raccontano una storia, ma allo stesso tempo c'è una dimensione virtuale che, seppur immateriale, si fa sentire. La pandemia ha accelerato questo processo, costringendoci a vivere sempre più nel mondo digitale, tra videoconferenze, social e acquisti online. Il mio lavoro vuole far riflettere su come tutto ciò ci stia cambiando, e su come la tecnologia ci stia facendo vivere in una realtà parallela».
Quando sono nati i Microcosmi Virtuali?
«L'idea è nata nel 2018, in parte da un altro progetto che stavo sviluppando con dei manichini. Durante quel periodo, riflettevo su come la tecnologia stesse trasformando la nostra vita quotidiana. Una volta smontata una vecchia televisione, mi sono trovato di fronte a una scheda madre, che mi ha colpito molto. Sembrava una città in miniatura, una specie di 'microcosmo', appunto. Da lì, ho cominciato a riflettere su come questa scheda fosse la parte fisica di un mondo virtuale, quello che ci collega agli altri, che ci fa parlare, pensare, interagire».
Quindi la scheda madre diventa il simbolo del mondo virtuale?
«Esatto. La scheda madre è il cuore pulsante di tutto ciò che vediamo e facciamo nel mondo digitale. È grazie a lei se possiamo comunicare, pubblicare, interagire. Ho voluto usare oggetti riciclati, come vecchi chip, per far emergere il legame tra il passato tecnologico e il presente, ma anche per far riflettere sul ciclo di consumo e disuso che caratterizza il mondo della tecnologia».
A questo proposito, in questa esibizione si riflette proprio sui consumi e sul disuso. Coinvolgendo la stessa società.
«Per realizzare Microcosmi Virtuali è stato fondamentale l’aiuto di tanti amici e conoscenti, che mi hanno portato vecchi oggetti trovati in casa o nei mercatini dell’usato, come le stesse gabbie. Materiali che hanno una storia e attraverso i quali possiamo parlare anche dell’importanza del recupero. Questo, oltre a dare ancora più significato all’opera, ha fatto diventare le persone parte del processo creativo, non solo come spettatori, ma anche come co-creatori. In un certo senso, le mie opere sono anche collettive, perché sono il risultato di un dialogo con la comunità».
Un dialogo che si sublima con la presenza in galleria, necessaria per apprezzare appieno un’esibizione che, al di là della bellezza estetica visibile anche in foto, fa immergere gli spettatori in questa realtà distopica con suoni e giochi di fumo.
«Ho voluto sfruttare ogni mezzo di espressione per creare un’esperienza a 360 gradi, con i suoni registrati allo Swiss National Supercomputing Centre di Lugano che vengono riprodotti ad altissimo volume, quasi a isolare i visitatori della galleria. Anche il sentirsi disturbati è un’emozione importante che genera emozioni e pensieri, permettendo un confronto. Che è possibile soltanto incontrandosi in un punto di aggregazione reale, luoghi che spesso mancano nelle nostre città».
Dopo la mostra alla Galleria Doppia V, come proseguiranno adesso i tuoi progetti?
«Sto continuando a lavorare su questa ricerca, cercando di proporre nuove riflessioni sul rapporto tra il fisico e il virtuale, tra il materiale e l’immateriale. Mi piacerebbe anche partecipare a concorsi e portare la mia opera in altri contesti. Ovviamente, accetterò ogni proposta che possa ampliare la portata del mio lavoro. Penso che l'evoluzione ci sia sempre, ed è importante non fermarsi mai. Ogni mostra è un nuovo punto di partenza, un’occasione per esplorare nuove dimensioni. O meglio, nuovi microcosmi…»-