Ambiente

«Sul clima c'è un falso allarme»

Intervista a Bjorn Lomborg, l'ambientalista scettico che va controcorrente e non ama il catastrofismo
©ANSA/CLAUDIO PERI
Francesco Mannoni
08.09.2024 06:00

Rilassiamoci: anche se il cambiamento climatico ci preoccupa, non è la minaccia apocalittica che da più parti si dice. Espressioni come «catastrofe climatica», «arroventamento globale», «emergenza climatica» e altre spaventose definizioni, sarebbero state «coniate da politici e attivisti per i quali il pianeta va incontro a massacri, morte e fame, ma sono totalmente prive di qualsiasi fondamento scientifico». Ce lo assicura quello che potremmo definire un «ambientalista scettico», il professore danese Bjorn Lomborg, 59 anni, che nel suo «corposo» saggio Falso allarme (Fazi, 420 pagine) sconfessa molte tesi con argomenti convincenti e spiega «perché il catastrofismo climatico ci rende più poveri e non aiuta il pianeta».

Il fatto che i giovani di buona parte del mondo scendano in piazza a protestare contro lo sfruttamento del pianeta con cartelli tipo: «Voi morrete di vecchiaia, io morirò per il cambiamento climatico», non ha intimorito Lomborg, sorta di anti Greta Thunberg che ha molto da obiettare, e lo fa energicamente.

Professore è iniziato il conto alla rovescia?
«L’annuncio di parte dei media che all’umanità rimane solamente un decennio per salvare il pianeta, con il 2030 posto come limite entro cui salvare la civiltà umana, non è una spada di Damocle sospesa sulla testa di tutti. Il cambiamento climatico avrà un impatto negativo sul mondo, ma non sarà nulla rispetto a tutti i miglioramenti positivi che abbiamo ottenuto finora e che continueremo a conseguire nel presente secolo.»

Ammetterà che la situazione è preoccupante?
«Il cambiamento climatico è reale, ed è causato prevalentemente dalle emissioni di carbonio prodotte dagli esseri umani che bruciano i combustibili fossili, e a noi spetterebbe affrontarlo con intelligenza. Per farlo però dobbiamo smettere di esagerare, di credere che il clima sia l’unica cosa che conti, e che se il riscaldamento globale non verrà mitigato sarà causa dell’estinzione umana» .

Come può dire con sicurezza che i timori di una apocalisse climatica sono infondati, se la situazione mondiale sembra dimostrare il contrario?
«Tutte le relazioni scientifiche sono state molto caute e solide e hanno fondamentalmente riconfermato che il cambiamento climatico è un problema reale, ma non apocalittico. L’ONU non ci dice che il mondo sta per finire a causa del cambiamento climatico: dice che è un problema, non la fine del mondo. I dati sembrano supportare questa lettura. Se ci trovassimo di fronte alla catastrofe che ci viene prospettata, ci aspetteremmo che il numero di morti per eventi naturali estremi fosse aumentato. Invece i dati ci mostrano l’esatto opposto: un secolo fa circa mezzo milione di persone morivano ogni anno a causa di fenomeni naturali estremi: questo numero oggi è sceso a 15.000 unità. Questo perché siamo riusciti a fare molti progressi in campo tecnologico e grazie a questi il numero di morti per cause estreme nell’ultimo secolo è diminuito».

Quali i progressi più importanti?
«Quelli tecnologici nel campo delle telecomunicazioni e delle informazioni. Il maggior numero di persone negli ultimi decenni è costantemente informato sull’andamento del clima e nel 1970 in Bangladesh oltre 300.000 persone non sarebbero morte a causa di un’alluvione se fossero state informate per tempo del disastro che stava per abbattersi. Mezzo secolo dopo sono stati fatti molti passi avanti: possiamo informare la gente di quello che sta per accadere, grazie anche a sistemi di previsione metereologica molto più avanzati; abbiamo introdotto infrastrutture più sviluppate per mettere in sicurezza le popolazioni e molte persone sono uscite dalla condizione di povertà estrema di un secolo e mezzo fa».

Su quali basi sostiene che quanto si sta facendo per contrastare i cambiamenti climatici a causa del «falso allarme» ci rende più poveri con scarsi progressi per il pianeta?
«Pensando di stare di fronte ad un imminente fine del mondo ci facciamo prendere dall’ansia di voler risolvere il prima possibile il problema. Questo è ciò che sta avvenendo: stiamo buttando un sacco di soldi senza concludere nulla. Dobbiamo uscire dalla visione catastrofista che è controproducente, anche perché al momento non abbiamo le tecnologie adatte per la totale trasformazione dell’economia con la decarbonizzazione».

Che cosa non funziona?
«La strategia che abbiamo adottato è molto costosa e si sta rivelando anche fallimentare dal punto di vista della transizione energetica e della riduzione delle immissioni, soprattutto se volgiamo lo sguardo alla situazione globale. Se andiamo al di là dei Paesi sviluppati, le nuove tecnologie non vengono adottate dai Paesi meno interessati al cambiamento (Cina, India e Paesi africani), perché l’adozione di una economia «green» è troppo costosa rispetto ai combustibili fossili. Le energie green devono essere meno costose di quelle fossili. Solo così si arriverà ad un serio cambiamento».

Nel 1990 quasi 4 persone su 10 a livello globale erano indigenti. Oggi sono meno di 1 su 10. Siamo diventati tutti benestanti nonostante le minacce ecologiche in atto?
«Questo è un evento che si inserisce all’interno di una traiettoria che non ha una visione chiara del futuro e sta rendendo l’umanità tendenzialmente più benestante, che vive più a lungo, ha molte più opportunità da qualunque punto di vista, e molte meno persone muoiono per effetti del cambiamento climatico. Possiamo dire che la questione ecologica pospone, rallenta leggermente la generale tendenza al progresso: viviamo in società che hanno abbondanza di tutto e per questo nel 2100 non saremo tutti morti a causa del cambiamento climatico come hanno profetizzato in tanti: probabilmente vivremo meglio di come viviamo oggi e forse solo un pochino peggio di come vivremmo senza il cambiamento climatico».

Ma ci arriveremo al 2100?
«Sì, ci arriveremo. Ma gli scienziati dicono che se vogliamo mantenere l’aumento delle temperature entro il limite di due gradi, dobbiamo agire molto rapidamente con soluzioni radicali. Però dobbiamo esaminare le politiche per il clima allo stesso modo in cui valutiamo ognuna delle altre, in termini di costi e benefici. Molte previsioni dicono che se non facciamo niente per il cambiamento climatico entro la fine del secolo perderemmo il 4% del PIL globale. Altre previsioni però sostengono che entro la metà del secolo le persone saranno più ricche del 450% di quanto non lo sono adesso anche se non facciamo nulla per migliorare il clima. Sono cifre che possono apparire incredibili, ma sono calcoli specifici dell’andamento dell’economia del pianeta».

Ogni anno a livello globale per contrastare il cambiamento climatico, vengono spesi oltre 400 miliardi di dollari. Con quali risultati?
«Qualche beneficio lo danno. La Germania ha speso una montagna di miliardi di euro per la transazione verde, e quali sono i risultati? Nel 2010 l’economia tedesca dipendeva dai combustibili fossili per il 79,6; oggi, quasi 15 anni dopo e i tanti soldi spesi, la Germania dipende dai combustibili fossili per il 79, 3%: c’è stata una piccolissima riduzione dello 0,3 per cento ad un costo spropositato. Questo, non è ovviamente un modello da seguire. Serve una strategia a lungo termine con investimenti massicci nella ricerca e nello sviluppo delle tecnologie verdi che possano essere adottate non solo dai Paesi occidentali ma anche dalla Cina, dall’India, dall’Africa e da tutti i Paesi poveri del mondo».