Editoria

Sulle tracce ticinesi dell'Adelphi

I rapporti con la Svizzera italiana, Ascona e il Monte Verità, in una favolosa storia editoriale
©Massimo Pedrazzini
Paolo Di Stefano
13.04.2025 06:00

Di Paolo Di Stefano

Diversi momenti e nomi che hanno a che fare con la casa editrice Adelphi riconducono alla Svizzera, alla Svizzera Italiana, ad Ascona e al Monte Verità. Ovviamente ciò non basterebbe a giustificare l’assegnazione del Premio Enrico Filippini alla casa editrice milanese se la storia di quest’ultima non fosse per diversi motivi carica di prestigio e di gloria da oltre sessant’anni fino a oggi. Sottolineato: fino a oggi. Dico subito che sarebbe stato facile e persino scontato assegnare il premio Filippini all’Adelphi di Roberto Calasso, mentre è certamente più significativo e bello (e giusto) farlo nel 2025, quattro anni dopo la morte del suo leader carismatico. Perché vuol dire riconoscere il lavoro svolto in questi ultimi anni delicatissimi in cui il timone è passato, morto Roberto Calasso nel 2021, a Roberto Colajanni e alla presidente Teresa Cremisi. Ma andiamo con calma.

La partenza con Nietzsche

C’è un nome intorno al quale si fa risalire la nascita di Adelphi: Friedrich Nietzsche. La vicenda è nota ma può essere sempre utile ricordarla. Siamo nel 1961 quando il segretario generale dell’Einaudi, Luciano Foà, propone di pubblicare l’edizione critica delle opere del filosofo tedesco, a cura di Giorgio Colli e Mazzino Montinari. Considerato che l’irrazionalismo di Nietzsche è stato (e ancora è in quegli anni) oggetto di un’appropriazione dell’estrema destra, Einaudi, l’editore di Lukács e di Gramsci, rinuncia al progetto. Foà lascia dunque la casa editrice per realizzare il sogno di fondare un nuovo marchio in condivisione con l’amico Roberto Bazlen, detto Bobi, l’intellettuale triestino, consulente tra l’altro di Einaudi e Bompiani, lettore onnivoro e visionario, scopritore in Italia di Kafka, Joyce e Musil, traduttore e fautore di Freud e Jung, amico e primo lettore di Svevo, che fa conoscere a Montale.

All’origine di Adelphi c’è un altro sodale di Bobi, il giovanissimo Claudio Rugafiori, intellettuale irregolare, francesista, orientalista, la cui cultura, scriverà Giorgio Agamben, è «un’immensa savana». Quel che a noi interessa oggi, qui al Monte Verità, è segnalare, tra i maestri di Rugafiori, l’islamista e iranista francese Henry Corbin, il quale sarebbe poi divenuto animatore degli incontri di Eranos, tra il 1949 e il 1978, con sede nella ben nota villa qui a fianco.

L’arrivo di Roberto Calasso

Al gruppetto primitivo si aggiungerà prestissimo uno studente universitario che si chiama Roberto Calasso, il quale nel giorno del suo ventunesimo compleanno, 30 maggio 1962, va a trovare Bobi a Bracciano e lì viene a sapere che sta per nascere una casa editrice «dove - gli confida Bazlen - finalmente potranno uscire i libri che ci piacciono». Non sa ancora, Calasso, che sarà lui, un decennio dopo, alla guida del nuovo marchio.

Nel giugno 1962, il progetto, dichiaratamente «senza scopi di lucro» (parola di Foà), si concretizza grazie al sostegno economico di Roberto Olivetti (fratello di Adriano) e poi di un altro mecenate straordinario, l’industriale e azionista ebreo Alberto Zevi, traduttore di Camus e di Hemingway (Per chi suona la campana, tradotto con Foà, uscirà a Lugano, per la Ghilda del libro, nel 1946). Tutti questi - Foà, Olivetti, Zevi - hanno trovato rifugio in Svizzera negli anni della persecuzione.

L’editoria italiana in quegli anni era vivacissima. Basti pensare che a Milano erano appena nate la Feltrinelli di Giangiacomo Feltrinelli (nel 1954), la Boringhieri del grigionese Paolo Boringhieri (nel 1957), il Saggiatore di Alberto Mondadori (nel 1958). «Allo stesso tempo - ha scritto Calasso - mancava ancora una quantità di cose, in realtà mancava la maggior parte di ciò che noi avremmo poi pubblicato». Alludeva alla letteratura fantastica, all’Oriente, al mito, alla patristica, a una filosofia non idealistica e non marxista, quella tradizione che l’Occidente, e l’Italia in particolare, hanno a lungo tenuto ai margini. L’impostazione ideale voluta da Bazlen, morto precocemente nel 1965, si sarebbe rivelata in quelli che lui chiamava i «libri unici». Che cosa si intende per «libri unici» lo spiegherà bene Calasso: sono «libri che per una ragione o per l’altra non solo corrispondono a un fatto o una forma unica nella vita di un certo scrittore ma hanno dietro di sé un’esperienza particolarmente intensa, non cancellabile».

Ciò che colpisce è l’evidenza di un’impresa culturale che prende avvio come officina-laboratorio di un gruppo di amici-sodali-adelphoi, una iniziativa quasi domestica destinata a essere tra le più prestigiose e innovative.

Un catalogo che va oltre l’orizzonte

Non sarò così imprudente da avventurarmi in una lista esauriente dei nomi in catalogo perché mi perderei in un labirinto borgesiano. Pur tuttavia qualche nome va fatto almeno nel tentativo di delineare alcune aree e intrecci che hanno reso celebre e unica questa casa editrice di libri unici, che ha puntato sin dall’inizio sul rifiuto del pensiero moderno, inteso in termini di razionalismo, positivismo, storicismo, ideologismo, sperimentalismo organizzato.

Si trattava piuttosto di guardare altrove rispetto a ciò che facevano altre case editrici come Einaudi, primo grande referente polemico: e cioè verso orizzonti fino ad allora ritenuti sospetti dagli ambienti progressisti, come quello del pensiero negativo o quello delle culture e filosofie orientali, collocate da Adelphi sullo stesso piano dei classici greci e latini e sottratte all’ambito del paraocculto in cui erano state relegate. All’Oriente si sovrappone inevitabilmente l’altra area che in genere viene identificata come la novità del marchio Adelphi: la Mitteleuropa, e la finis Austriae in particolare, il cui massimo testimone è Joseph Roth, pubblicato integralmente a partire dagli anni Settanta e divenuto con Hoffmansthal e Schnitzler il centro di una costellazione in cui si muovono Hesse a Krauss a Canetti a Bernhard a Milosz a Bachmann fino a Kundera, strepitosi successi valutabili in milioni di copie, come del resto il Simenon, Maigret e extra-Maigret, magistralmente sfilato alla distratta Mondadori. L’ambizione è che ogni titolo riesca a riverberarsi nell’altro e solo così un insieme di «libri unici» diventa una costellazione (parola molto cara a Calasso).

È una specie di tocco magico, per cui in questo insieme tutto, vecchio e nuovo, scienza e letteratura, filosofia ed etologia, brilla di luce imprevista. Ciò vale anche per l’impressionante Pantheon del Novecento italiano costruito con pazienza anno dopo anno: penso a Savinio, Landolfi, Malaparte, Sciascia, Ortese, Parise, Manganelli, Gadda, Arbasino, Ceronetti… Senza dire di Morselli, lo scrittore più bocciato dell’editoria italiana.

Nell’infrazione e nell’«azzardo» (parola amata) si verificano anche gli esordi, come quello sconvolgente di Aldo Busi. E tra le scommesse ci sono molti svizzeri: a Gottfried Keller si aggiungono negli anni Robert Walser, Jeremias Gotthelf, Blaise Cendrars, il filosofo Giuseppe Rensi, Friedrich Dürrenmatt, il critico Giovanni Pozzi della Parola dipinta e di Alternatim, infine ma non infine Fleur Jaeggy sin dal 1968. Jaeggy è ben presente, oltre che in veste di scrittrice - la grande scrittrice che conosciamo - anche come traduttrice dal francese e dal tedesco. È un «gioco di relazioni multiple» il segreto di quella che Calasso ha chiamato l’«impronta dell’editore»: unica e inconfondibile. E in questo gioco è imprescindibile e altrettanto unico il dialogo tra idea e materialità, tra contenuto e forma, titolo, collana e copertina. Anche i colori Adelphi formano una costellazione magica.

- Quella che pubblichiamo è una Laudatio che il giornalista Paolo Di Stefano ha scritto per il Premio Enrico Filippini 2025

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