Teatro e arte contro il Parkinson

Oltre sei milioni di persone colpite da Parkinson nel mondo, 15 mila in Svizzera, 600 (circa) in Ticino. Malati - in prevalenza uomini - che hanno in media oltre 60 anni. E proprio perché questa patologia colpisce soprattutto in tarda età, per effetto dell’invecchiamento della popolazione si prevede una crescita progressiva dei casi. «Questa è una tendenza reale: chi invecchia rischia maggiormente di soffrire di queste malattie degenerative e il Parkinson è la seconda dopo l’Alzheimer. Ma se è vero che il picco di incidenza di questo disturbo neurodegenerativo è attorno ai 65 anni, ci sono tuttavia anche casi che riguardano i giovani. Non tanti, per questo è importante riconoscere subito i segnali», spiega il dottor Salvatore Galati, medico neurologo all’Ospedale Civico di Lugano che si occupa di pazienti affetti da Parkinson ormai da oltre 22 anni, anche come ricercatore e docente all’Usi.
Le cure farmacologiche
Galati l’11 aprile sarà uno dei relatori di una giornata di sensibilizzazione della popolazione. «Il Parkinson - riprende il neurologo dell’Eoc - è una malattia cronica che muta nel tempo. Seguo pazienti da 15 anni, loro sanno tutto di me e io di loro». Ogni individuo ha sintomi e conseguenze differenti, vive la malattia in maniera diversa dagli altri. «Ma grazie a terapie ormai efficaci, soprattutto farmacologiche, riusciamo a mascherare molto bene i sintomi in particolare all’inizio della cura, in quel periodo di tempo che viene definito «luna di miele». Poi la comparsa delle fluttuazioni motorie e dei movimenti involontari, cambiano il quadro della malattia che diventa nuovamente evidente. Nel decorso della malattia non ci si trova ad affrontare solo aspetti come tremore, rigidità, rallentamento motorio, ma spesso emergono anche sintomi catalogati come non motori, come la deflessine dell’umore, l’apatia, stitichezza o altri disturbi.
Le nuove terapie farmacologiche
Per quanto riguarda i disturbi motori le terapie farmacologiche messe a punto negli anni in qualche modo riescono a governare disturbi particolarmente complicarti. «Ad esempio spiega ancora il dottor Galati - le discinesie (i movimenti involontari e incontrollati), che emergono dopo circa 7, 10 anni dall’insorgere dei sintomi possono essere controllati dalle terapie avanzate». Il neurologo a questo punto ha il compito di ridurre l’impatto di queste fluttuazioni. E lo fa, oltre che con le medicine, anche con altre terapie come, ad esempio, la stimolazione cerebrale profonda. «Al momento, tuttavia, non disponiamo di farmaci in grado di rallentare la malattia, ecco perché l’anno scorso il tema della giornata dell11 aprile era l’esercizio fisico promettente in tale ottica. Mentre quest’anno sono attività legate a musica, teatro e arte, cioè come possibili pratiche complementari nella terapia della malattia di Parkinson».
Le diverse attività
«C’è un piccolo, ma significativo, gruppo di persone affette da Parkinson che sviluppa una certa impulsività, non aggressività. In buona sostanza pensa una cosa e la fa in maniera avventata e compulsiva. Attraverso il teatro o la pittura, ad esempio, si possono veicolare questi comportamenti negativi verso una produzione creativa. Così il malato risponde diventando creativo o riscoprendo la creatività che aveva in passato. Sul piano medico, tenendo conto che questo è un argomento complesso con una vastissima letteratura scientifica, possiamo spiegare certi comportamenti con la relazione intima tra dopamina e creatività. La dopamina è quel neurotrasmettitore, quella molecola del cervello che con il Parkinson si riduce progressivamente, si depaupera. I farmaci tendono a ripristinare questi livelli di dopamina ma lo fanno in maniera indiscriminata, non lo fanno attraverso un controllo fisiologico come avviene in una persona sana. In questo contesto bisogna tener presente che nel nostro cervello abbiamo una serie di circuiti, che in qualche modo dettano il nostro comportamento. Ecco, un cervello creativo è un cervello che ha un equilibrio, consente per esempio di restare focalizzati su qualcosa e nello stesso tempo può riuscire a divergere da qualcosa, e gestisce l’emotività. Nel momento in cui c’è un disequilibrio, perché c’è una alterazione della dopamina legata a questo processo degenerativo, si hanno effetti anche sulla creatività. Si diventa meno produttivi. O nel momento in cui si somministrano i farmaci si possono verificare comportamenti patologici. Quello che facciamo, è offrire al paziente un ambiente in grado di stimolare la creatività in maniera da spostare la bilancia verso una attitudine positiva. Fare arte e creare oggetti vuol dire limitare i comportamenti distruttivi, quelli dove non si controllano gli impulsi, e nel contempo offrire opportunità creative. Insomma, anche dal contesto sociale possono venire stimoli importanti. Stimoli che noi forniamo spingendo i pazienti a frequentare workshop, attività fisiche, atelier di danza, scultura, pittura e teatro».
L’importanza della famiglia
Nel corso della malattia, poi, è importante il sostegno della famiglia. E sono rilevanti le associazioni, come Parkinson Svizzera (che ha contribuito all’organizzazione della giornata dell’11 aprile) che si occupa di prevenzione e assistenza. «Dal mio punto di vista di neurologo - fa notare il dottor Galati - i familiari sono necessari così come la figura del «caregiver», l’assistente familiare. Perché a volte il paziente non riconosce subito le molteplici facce della malattia, non riconosce certi comportamenti. Invece chi gli sta vicino si accorge e io da medico devo effettuare delle scelte terapeutiche tenendo conto, oltre del quadro clinico, dell’analisi di quello che è accaduto alla persona. E questo me lo possono dire i familiari o gli assistenti».
Lo studio sul sonno
Infine, il dottor Salvatore Galati studia da tempo - insieme ad altri ricercatori anche di Zurigo - i disturbi della sfera non motoria come il sonno, un importante modulatore della capacità del cervello di apprendere nuove informazioni ed eliminare quelle non necessarie, oltre che la capacità di adattarsi a una nuova situazione. «In un progetto finanziato dal Fondo nazionale svizzero delle scienze, stiamo cercando di capire quanto incide il sonno nello sviluppo malattia».