Trump, Putin e l'Iran: che cosa succede adesso?
Donald Trump non si è ancora insediato e già circolano ipotesi su cosa farà a partire dalla promessa elettorale di "chiudere tutte le guerre" partendo da quella in Ucraina. E uno dei primi passi è stato proprio verso Kyev. Il presidente neo-eletto ha avuto un colloquio con Zelensky a cui ha partecipato - non a caso - Elon Musk.
La coppia avrebbe dato rassicurazioni all’interlocutore, compreso l’impegno a mantenere l’assistenza satellitare Starlink messa a disposizione dal miliardario. Interessante, comunque, la presenza di Musk, una conferma indiretta di un ruolo importante.
La telefonata è servita forse a stemperare i timori degli ucraini e di quei governi europei che non sono disposti ad accettare formule che premino l’aggressione della Russia. Paure accentuate da scenari fatti uscire anche per «vedere» le reazioni. Uno di questi prevede lo stop delle ostilità, la creazione di una fascia demilitarizzata lunga oltre mille chilometri, il controllo russo sul 20% del territorio conquistato, il dispiegamento di una forza multinazionale a garanzia, un rinvio di qualsiasi ingresso dell’Ucraina nella Nato ma la continuazione dell’aiuto bellico come pegno. In sostanza un congelamento delle posizioni che agli occhi di molti equivale ad una sconfitta per Kiev.
Alle considerazioni diplomatiche si aggiungono le speculazioni sul rapporto tra Trump e Vladimir Putin. C’è chi è convinto che legami e possibili condizionamenti (o perfino ricatti) possano indurre il miliardario-politico a fare concessioni a Mosca. Giovedì, il leader del Cremlino ha solleticato l’ego di Trump sottolineando la sua forza nel reagire all’attentato e non ha escluso un contatto diretto a breve evocato, dall’altra parte, dallo stesso tycoon. Il messaggio è chiaro: sono pronti a parlarsi. Segnali di fumo che possono diventare concreti nelle prossime ore o giorni.
È, però, anche vero che una volta che The Donald siederà nell’Ufficio Ovale della Casa Bianca sarà costretto a “vedere” il mondo con occhi diversi ed avrà davanti una realtà più complessa di quella affrontata durante il suo primo mandato. E poi Trump è Trump, nel senso che è imprevedibile.
E veniamo ora al secondo dossier spinoso, quello mediorientale. Il repubblicano ha un patto di ferro con il premier israeliano Bibi Netanyahu e secondo diversi analisti ciò dovrebbe garantire a Tel Aviv carta bianca a condizione che ottenga una vittoria. Tuttavia, come si concilierebbe questa scelta con la promessa di spegnere ogni focolaio?
Una soluzione potrebbe venire da un’iniziativa dove gli Stati Uniti spingono le monarchie sunnite del Golfo ad un’intesa con lo Stato ebraico e in cambio di ciò finirebbero le azioni militari con un tentativo di dare un assetto diverso a Gaza e al Libano. Sempre in questa cornice vi sarebbe una manovra per spingere la Siria a rallentare - se non spezzare - i vincoli con Teheran, una svolta ricompensata da finanziamenti cospicui da parte dei principi del petrolio storicamente in sintonia con Trump e, grazie agli affari, con la sua famiglia. Ma sono solo progetti, dove è facile incontrare ostacoli duri. A cominciare dall’Iran, uno dei nemici storici.
L’entourage di Trump, negli scorsi mesi, ha indicato quale potrebbe essere la strategia di contenimento nei confronti dei mullah: sanzioni severe sul comparto petrolifero per accentuare le difficoltà interne, pressione diplomatica costante per ottenere un «cambio di atteggiamento» (e non di regime), un no deciso al programma nucleare. Una variabile potrebbe arrivare con il supporto ad un’azione militare di Tel Aviv, anche se è chiaro che potrebbe innescare uno scontro totale.
Nella contesa c’è poi un aspetto particolare. The Donald ha ordinato nel 2020 l’uccisione del generale iraniano Qasem Soleimani, figura chiave del regime, e Teheran è accusata di aver progettato operazioni contro il neopresidente, anche durante la recente corsa elettorale. Una vendetta ritardata. Almeno due le inchieste americane, con diverse incriminazioni di elementi reclutati dai pasdaran per eseguire la missione. Consueto il modus operandi: ingaggio di criminali comuni incaricati da Teheran di «finire il lavoro». Pronte le smentite dell’Iran secondo cui le rivelazioni sono una manovra «sionista». Tutti elementi che potrebbero dare al duello un aspetto personale usato dai falchi dei due campi per regolare i conti.
In questa lunga storia, purtroppo, non mancano le occasioni per farsi del male e il Medio Oriente è l’arena «perfetta».