Il personaggio

Vincenzo Nibali: «Ora pedalo verso una nuova vita»

Lo squalo dello Stretto ripercorre la sua vita: «A Messina ero l'unico ragazzino che andava in bicicletta»
© CdT/Chiara Zocchetti
Giorgia Cimma Sommaruga
22.01.2023 07:00

Instancabile passista-scalatore, irrefrenabile discesista. Professionista del ciclismo per ben 18 anni. La Domenica ha incontrato il campionissimo Vincenzo Nibali, uno degli atleti più forti e completi della sua generazione visto che è stato uno dei 7 ciclisti al mondo (dopo Anquetil, Merckx, Gimondi, Hinault, Contador e Froome) ad essersi messo in tasca almeno una edizione dei tre grandi giri. Ma non è finita qui. Il golden boy di Messina, chiamato dai suoi fan “lo squalo dello Stretto”, sempre all’attacco, è stato uno dei soli 4 corridori ad aver vinto, assieme ai grandi giri, anche due classiche monumento, come il Giro di Lombardia e la Milano-Sanremo. E poi, ciliegina sulla torta, ben due titoli italiani. Dopo l’addio al professionismo annunciato pochi mesi fa – proprio a Messina - Nibali si è lanciato in una nuova avventura, e, con tante emozioni contrastanti, ha ripercorso assieme a La Domenica la sua straordinaria carriera. 

Il mio è stato un percorso molto lungo: mi sono spostato dalla mia regione natale, la Sicilia, nel lontano 2000, per girare il mondo

Partiamo dalla fine. Dopo una carriera come la tua quanto è stato difficile annunciare il proprio ritiro? 

«Non è stata durissima. Questa decisione è maturata un po’ nel tempo. Il mio è stato un percorso molto lungo: mi sono spostato dalla mia regione natale, la Sicilia, nel lontano 2000, per girare il mondo. L’ultimo anno è stato bello e molto particolare. Sono ritornato a vestire i colori che mi hanno portato tantissime vittorie, ovvero quelli del team kazako dell’Astana e sapevo che c’era un Giro d’Italia che passava dalla Sicilia. Visto che c’era una tappa che passava proprio da casa mia, da Messina, ho pensato che poteva essere il giorno giusto per fare un annuncio al pubblico del ciclismo e al pubblico che mi ha seguito sin da ragazzino». 

Proprio così, quando, guardando tuo papà Salvatore, ti sei avvicinato a questo sport… 

«Assolutamente sì. Passione di papà scoperta in tarda età. Lui negli anni ‘80 aveva un’officina fuori città in una zona collinare. Vedeva passare tanti amatori in bici durante la pausa pranzo, e così ha iniziato a parlarne, era incuriosito. Allora per il suo compleanno mia mamma gli regalò una bicicletta. Da lì iniziò la sua avventura: partiva da casa, andava al lavoro in bici, era diventata una buona routine. Poi ha iniziato a fare amicizia con altri pedalatori, e a seguire le gare in tv». 

E poi nel 1984 sei arrivato tu… 

«Si sin da bambino mi ricordo di lui in bici, era meccanico, quindi se la sistemava, la smontava, riparava… A quei tempi era un po’ come se fosse una attività di famiglia, partivamo la domenica e andavamo a guardare qualche garetta da amatori. Si stava assieme con gli altri amici che assistevano alle gare, era veramente un bell’ambiente». 

Finché non hai iniziato anche tu a pedalare.

«Fui notato da qualcuno, dicevano “quel ragazzino corre, ha talento, bisogna farlo provare”. Per me le gare sono però arrivate molto tardi, di solito si inizia già verso i sette anni, con qualche gara di abilità, sono piccole sfide per far divertire i bambini, insegnando una sana competizione. Io ho fatto la mia prima gara a 13 anni, sono arrivato secondo, e da li è iniziato tutto…». 

Cresciuto pedalando. © Vicenzo Nibali
Cresciuto pedalando. © Vicenzo Nibali

Anche se per un attimo hai voluto mollare…

«Diciamo che a Messina ero l’unico ragazzino che faceva questo sport, quindi non avevo un gruppetto di amici con cui allenarmi. Per fortuna mio papà, per motivarmi e aiutarmi, ha avuto una grande intuizione, è andato dai miei cugini, e ha detto loro: “Dai andate a pedalare con Vincenzo, vi trovo io la bici”. Insomma da li a poco eravamo un bel gruppo, ci siamo davvero divertiti». 

Qualche marachella?

«Certo! Quando al posto di allenarci andavamo sulla litoranea a fare i tuffi al mare… Mi ricordo ancora… i sellini delle bici poi si scolorivano a causa dell’acqua salmastra lasciata dal costume da bagno… E subito venivamo scoperti. Ogni tanto poi mio papà ci seguiva in scooter, ma tutto sommato eravamo abbastanza bravi, ci siamo sempre allenati bene». 

Che papà è stato il tuo?

«Molto duro, ma col senno di poi meglio così. Sono stato discolo da ragazzino, ci scontravamo, se lui diceva A io per partito preso dicevo B. Dallo sport, al lavoro di bottega. Perché dopo l’officina ha avuto un negozio dove noleggiava i proiettori e i VHS e poi uno di fotografia. E io aiutavo al lavoro dopo scuola, facevo le consegne a domicilio in bici. Ma sicuramente è stata una figura che nell’ambito del mio sport mi ha aiutato. Basta solo dire che forse, se non ci fosse stato lui, non avrei iniziato, e forse, continuato». 

E la tua famiglia? Ti ha aiutato ad avere più equilibrio?

«Certamente, perché in una lunga carriera ci sono tanti fattori che devono andare a combaciare. Bisogna trovare le persone giuste, non avere gravi infortuni, la squadra, la bici ecc… Nella mia vita ho portato dei pesi anche io. Ho dovuto attraversare momenti di grande difficoltà. Però la mia famiglia è stata molto brava a non trasmettermeli e a non farmeli pesare. C’è stato un periodo in cui mio papà ha avuto un problema di salute. Lui aveva perso sua sorella per un tumore della pelle, così fece dei controlli e scoprì di avere un neo che stava iniziando a dare dei problemi. Quando è successo io ero già in Toscana e loro cercavano di non trasmettermi l’apprensione che vivevano». 

Vincenzo Nibali, la moglie Rachele e la loro bambina. © Instagram/Vincenzo Nibali
Vincenzo Nibali, la moglie Rachele e la loro bambina. © Instagram/Vincenzo Nibali

E poi l’incontro con Rachele…

«L’ho conosciuta in un momento in cui non pensavo a fidanzarmi, ero single da qualche tempo, ero concentrato sullo sport. Avevo stretto una grade amicizia con un mio compagno di squadra, e così prima di tornare in Sicilia durante una pausa mi fermai a trovarlo in zona Fiuggi. Mi voleva presentare una amica di sua moglie… Gli dissi: «Ma dai Valerio, non è il momento...». Ma è stato un colpo di fulmine per entrambi. Dopo un anno ci siamo sposati, nel frattempo io mi ero spostato in Ticino e lei mi raggiunse subito dopo». 

Quindi il primo vero periodo di convivenza è avvenuto a Lugano?

«Sì, è stato un periodo pieno di emozioni, tutto nuovo, da scoprire. Io avevo già vinto la Vuelta, e il mio nome iniziava a comparire sui media, mi conoscevano sempre più persone. Dunque penso che vivere a Lugano mi abbia aiutato a tenere un muro di protezione nei confronti della mia famiglia, e tutto è andato per il meglio». 

Nel 2006, l’anno successivo al tuo ingresso tra i professionisti, viene introdotto il passaporto biologico per i ciclisti. Come hai vissuto questa nuova regola?

«È stata a mio avviso una vera svolta, una riforma del ciclismo. Io e tanti altri giovani abbiamo aderito con entusiasmo, c’era la volontà di dare a questo sport una nuova faccia, troncare con il passato che ha visto tanti scandali a causa del doping. Dunque l’ho vissuta bene, facevo parte io stesso del cambiamento, e questo prevedeva anche controlli a sorpresa all’alba mentre dormivi con la tua famiglia. Chiaramente le nuove regole non piacciono mai a chi è abituato in altro modo, un po' come quando hanno imposto la cintura di sicurezza in auto, o il casco in moto, ma per me, essendo entrato con quella nuova regola era facile accettarla».  

La gente del posto in realtà non si preoccupa così tanto perché è abituata a sentire i governi che si succedono in Italia che parlano del ponte sullo stretto

Ti hanno chiamato «lo squalo dello Stretto», ma tu il ponte lo percorreresti in bici?

«Per ora la vedo grigia! Da messinese conosco bene la situazione: del ponte sullo stretto se ne parla da molti anni, se si può fare o non si può fare, questo è secondario. La gente del posto in realtà non si preoccupa così tanto perché è abituata a sentire i governi che si succedono in Italia che parlano del ponte». 

E tu cosa ne pensi? 

«Io penso che possa essere molto utile per lo sviluppo del trasporto, si potrebbe potenziare tutta la rete ferroviaria che sotto Napoli è davvero vecchia e frammentata. Creerebbe lavoro e anche turismo. Immaginiamolo come fosse il ponte di Brooklyn: un struttura a una bancata, 300 pilastri per una lunghezza di circa 2 km da parte a parte. Insomma molto scenografico. Ma eccoci qui alla magagna. Io so perfettamente che qualsiasi governo si troverà in Italia, anche in futuro, si troverà a dover affrontare questo problema, perché i fondi per la costruzione sono stati liberati, i contratti ci sono e ci sono anche le penali che sono tanto costose quanto la costruzione del ponte stesso. E poi c’è dietro anche tutta una questione che riguarda il paesaggio... Quindi insomma, procederà? Chi lo sa, rimane davvero un grande punto di domanda». 

Tu hai dichiarato più volte di non essere un trascinatore ma nel tuo nuovo ruolo da consulente tecnico del Q36.5 Pro Cycling Team la squadra svizzera di Doug di Douglas Ryder avrai a che fare anche con molti giovani promesse del ciclismo…

«L’ho detto perché io ho sempre fatto le mie scelte da solo, non ho mai voluto imporle agli altri, non ho mai supplicato i compagni di squadra e nemmeno ho mai rilasciato dichiarazioni prima delle gare dicendo «questa gara la vincerò io». Ho sempre preferito lavorare in silenzio. Penso che comportarsi così - da vanitosi - sia un po' presuntuoso, io preferisco i miei toni pacati e dimostrare quello che sono con i fatti. Poi se le altre persone, come è successo in passato, vogliono seguirmi e ispirarsi al mio impegno ne sono molto felice. E così sarà anche nel mio nuovo progetto…». 

Un progetto che fa bene al ciclismo svizzero.

«L’ho sposato in pieno perché partendo dalla Svizzera questo progetto punta ad essere il più internazionale possibile. Una volta il ciclismo era prevalentemente europeo: c’era il Tour in Francia, il Tour di Belgio e Olanda, poi il Giro d’Italia e la Vuelta in Spagna. Oggi il nostro atleta che è svizzero va a correre in giro per il mondo. Ed è importante che questo brande sia conosciuto in tutti i Paesi. Io, ad esempio,  ho lavorato in grandi team che hanno sempre avuto quasi un atleta per ogni nazione. Ecco che ci sono varie visioni del ciclismo, ma penso che limitarsi soltanto al ciclismo svizzero o agli atleti svizzeri sia riduttivo. Però il fatto che ci siano in questo momento due team svizzeri (Q36.5 Pro Cycling Team e il  Tudor Pro Cycling Team) è molto importante perché fa capire quanto sta crescendo il ciclismo e quanto è cresciuto anche qua in Svizzera».

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