«La società sarà migliore quando una madre avrà l'ambizione di un padre»
Lei è la prima donna ticinese ad essere nominata - dalle Camere federali - giudice ordinaria del Tribunale federale. Ma per raggiungere questo traguardo Federica De Rossa ha lavorato Laureata in diritto all’Università di Friburgo, è stata assistente e ricercatrice, ha ottenuto il brevetto di avvocata è poi è diventata professoressa straordinaria di Diritto dell’economia alla Facoltà di scienze economiche dell’Usi dove da ormai cinque anni dirige l’Istituto di diritto. Nel 2014, poi, è stata eletta giudice supplente al Tribunale federale di Losanna.
Partiamo dagli ultimi impegni: insegnante e giudice supplente. Come ha conciliato le due professioni?
«Mi sembra di essere riuscita a conciliarle piuttosto bene anche perché le trovo complementari ed interdipendenti: in un certo senso, esse si nutrono a vicenda. L’attività accademica comporta infatti impegni diversificati che non si limitano all’insegnamento ma comprendono anche la preparazione di pubblicazioni scientifiche ed una serie di attività di servizio per l’istituzione e per il territorio. È molto intensa, ma è creativa e permette di sviluppare idee e proporre soluzioni con una grande libertà. D’altro lato la mia attività di giudice supplente si è nutrita del modo di pensare accademico, dell’approccio scientifico rigoroso che ho potuto applicare alla risoluzione dei casi che mi sono stati affidati. Era un connubio perfetto. Naturalmente però questa combinazione di due professioni ha comportato un grande impegno dal profilo organizzativo, ma anche qui ho sempre cercato di essere flessibile e creativa, imparando da un lato a lavorare in qualsiasi contesto ed in qualsiasi momento della giornata e dall’altro a ritagliarmi e difendere spazi preziosi della mia vita privata, con i miei figli in particolare».
Lei è una professionista che non ha rinunciato alla maternità per la carriera. Quali le difficoltà maggiori di questa scelta?
«La società sarà migliore solo quando sarà perfettamente naturale che una madre abbia ambizioni di carriera esattamente come un padre, quando il fatto che una donna in carriera voglia o non voglia avere dei figli non solleverà più commenti, o quando un padre che vorrà lavorare a tempo parziale per prendersi cura dei figli piccoli non verrà chiamato «mammo». Finché il fatto di perseguire con passione un obiettivo professionale che valorizzi le proprie competenze ed il proprio impegno di una vita verrà percepito come una scelta potenzialmente contrapposta alla maternità in un’ottica di rinuncia ad uno o all’altra, significa che c’è ancora molto da fare».
Cosa si deve ancora cambiare nel mondo del lavoro per permettere alle donne di poter percorrere entrambe le strade?
«Ci vuole un cambiamento culturale profondo, che tuttavia è ancora troppo lento e che necessita di un impulso risoluto. È in questo contesto che, a mio avviso, il legislatore assume un ruolo essenziale. Il diritto, infatti, deve anche svolgere una funzione propulsiva ad esempio introducendo strumenti che favoriscano una ripartizione equilibrata dei compiti familiari e professionali tra i genitori, come il congedo parentale oppure la creazione di un servizio pubblico che garantisca un accesso adeguato ad asili nido e strutture parascolastiche per tutte le famiglie».
Quote rosa. Sono un punto di partenza?
«Le quote di genere sono uno strumento che piace poco, ma che è a mio avviso necessario in determinati contesti per accelerare il processo di realizzazione di una parità effettiva che, pur essendo un diritto costituzionale, oggi non è ancora raggiunta. Il processo è davvero troppo lento: una recente analisi condotta dal WEF sul miglioramento della condizione delle donne in ambito sanitario, educativo, lavorativo e politico in 153 Paesi ha calcolato che, continuando di questo passo, le ineguaglianze saranno colmate solo fra 100 anni! Se la società e l’economia da sole non si adeguano occorre quindi dare una spinta».
E in Svizzera?
«D’altra parte la Svizzera ha ratificato da anni la Convenzione dell’ONU per l’eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti della donna che chiede agli Stati di adottare ogni tipo di misura temporanea o definitiva necessaria per abolire le discriminazioni esistenti e per abbattere gli stereotipi ancora radicati nella società. Essa stabilisce espressamente che queste misure positive non possono in alcun modo essere considerate discriminatorie, fintantoché i privilegi di cui hanno goduto fino ad ora gli uomini non saranno aboliti e le donne non beneficeranno di medesime condizioni di partenza».
Università. Cosa le mancherà di più?
«Mi mancherà molto l’interazione quotidiana e dinamica con le studentesse e gli studenti. Mi mancherà anche l’Istituto di diritto che ho visto nascere e che in questi anni ho cresciuto come un figlio, con l’indispensabile supporto di colleghi e assistenti a cui devo tantissimo, anche sul piano umano».
La prima donna ticinese al Tribunale federale. Cosa significa per lei questo traguardo professionale?
«Per me è la realizzazione del mio sogno di quarta liceo, quando dissi ai miei genitori che avevo deciso di studiare diritto per diventare giudice, ma è anche l’occasione per prendere coscienza del percorso - talvolta anche molto faticoso - che ho fatto, sia sul piano professionale che su quello più personale, come donna. Ma questo traguardo ha anche un enorme valore simbolico per me che mi sono battuta con perseveranza per una società più paritaria in ogni ambito della mia vita. La felicità che provo per essere la prima donna italofona ad accedere a questa carica è davvero indescrivibile!».
In questo nuovo ruolo sarà lei a giudicare. Ma durante i lunghi anni di attività diretta sul campo, quali aspetti ha notata, quali debolezze ha colto nel sistema giudiziario? Cosa si può cambiare?
«Il sistema giudiziario, a livello cantonale e federale, oggi è molto sollecitato. I casi che arrivano dinanzi ai tribunali aumentano costantemente; il diritto diventa sempre più denso, complesso e tecnico, e richiede quindi un elevato grado di specializzazione. Nel contempo, alla giustizia viene chiesto di essere efficiente e di ridurre i costi. Credo che la vera sfida consista nel trovare un equilibrio tra una giustizia rapida ed efficiente ma dotata di risorse sufficienti per assicurare ai cittadini una protezione giurisdizionale effettiva, ad esempio anche nei casi che, pur avendo un basso valore pecuniario, sollevano questioni di fondo importanti».
È sicuramente fonte di ispirazione per molte giovani studentesse che sognano un giorno di poter percorrere la sua strada.
«Mi piacerebbe essere fonte di ispirazione anche per giovani studenti (ed in questi giorni alcuni di loro mi hanno detto che lo sono, e mi hanno resa felice!) perché anche loro sognano una società più paritaria e vogliono essere attori del cambiamento».
Ma lei ha avuto una personalità a cui si è ispirata?
«Nella mia vita privata e professionale ho incontrato diverse figure che mi hanno guidata. La prima tra queste è stata probabilmente la mia nonna materna, una donna coraggiosa e pioniera, che da giovane aveva frequentato la scuola di commercio in una classe di soli ragazzi, fatto pelli di foca e portato i pantaloni e che, con tre figli, accanto a mio nonno ha condotto una fabbrica con 50 dipendenti: ricordo che quando io ero piccola, nei primi anni in cui le donne avevano conquistato il diritto di voto, lei mi portava al seggio e, mentre compilava la scheda in maniera diversa da come aveva preparato il fac simile con suo marito a casa, mi diceva con sguardo furbo: «ricordati, Federica, che nel segreto dell’urna nessuno saprà mai cosa voti». Sono anche molto riconoscente non solo a chi ha saputo aiutarmi a valorizzare i miei punti di forza, ma anche a chi mi ha insegnato ad accettare le mie debolezze e a non aver paura di mostrare la mia autenticità, anche quando questa non corrispondeva ad un ideale di perfezione… che in realtà non esiste».
Pensa che l’attuale sistema di nomina dei magistrati, attraverso la votazione e le «selezioni» di partito, sia ancora valida e garantisca una buona dose di autonomia?
«È una domanda un po’ scomoda per una giudice federale fresca di elezione... Credo che il sistema sia migliorabile su vari fronti, come ha mostrato anche il dibattito vivace che si è sviluppato in occasione della votazione sull’iniziativa popolare per la designazione dei giudici mediante sorteggio e come rileva regolarmente il Gruppo di Stati contro la corruzione (GRECO) nei suoi rapporti sulla Svizzera. Ma non bisogna dimenticare che i giudici, una volta eletti, sono in grado di prendere la distanza necessaria rispetto al proprio partito politico e di decidere con oggettività, facendosi guidare dal diritto, che è il loro faro, e mettendo nelle decisioni la loro esperienza della vita e i loro valori personali. Va poi detto che le decisioni sono frutto di un’opinione costruita in un collegio giudicante composto da più giudici di diverse sensibilità e provenienze ed anche questa circostanza assicura il necessario equilibrio in particolare nelle sentenze che potrebbero avere un impatto più politico».