Storia

Il “Comunismo della sorveglianza”: censura e controllo mediatico in Cina

Alla fine degli anni Ottanta sembrava che internet avrebbe portato la democrazia in Cina, dove tuttavia il controllo sulla popolazione non ha fatto che aumentare grazie alle nuove tecnologie
Amedeo Gasparini
12.04.2021 15:01

All’alba degli anni Duemila Bill Gates e Bill Clinton erano entusiasti: Internet e la globalizzazione avrebbero portato la democrazia in Cina, credevano... Si sbagliavano di grosso. Eppure, apparentemente, c’era di che essere ottimisti. Il contagio della liberal democrazia, della fine della Storia di Francis Fukuyama, sembrava conquistare un paese dietro l’altro. Al crollo del Muro di Berlino molte realtà intendevano fare della libertà di espressione, pensiero, religione e stampa la loro priorità per l’avvenire, dopo anni al buio della spietatezza totalitaria. Allora, erano lustri che la Cina si stava scongelando: e l’arrivo sullo scacchiere mondiale di Pechino subì un’importante accelerazione grazie alle riforme semi-capitaliste di Deng Xiaoping. Si ricordino però i fatti del 4 giugno 1989: la libertà di espressione non era tra le priorità del regime neppure di fronte all’impennata della globalizzazione. Allora, come oggi e sempre, il Partito Comunista Cinese intendeva controllare il suo popolo anche nell’era in cui le frontiere e il controllo totalitario sembravano svanire.

Dal profilo economico, la Cina ha bruciato molte tappe in pochissimi anni: ad esempio, solo dal 2008 al 2011 il PIL cinese è cresciuto nel complesso del diciotto per cento, mentre quello americano di dieci volte in meno; quello complessivo dell’UE è calato dell’1.4 per cento. Il che ha conferito al Dragone straordinaria sicurezza in se stesso. Negli anni, Pechino ha puntato molto sul tech: è sulla tecnologia, sulla velocità della comunicazione, sull’integrazione uomo-macchina che molte aziende cinesi lavorano alacremente da anni. Il Partito Comunista si serve apertamente della tecnologia per controllare la popolazione: la capillarità maniacale dello scrutinio perenne nella vita degli individui è diventato talmente sviluppato che molti di questi non ci fanno neppure più caso. L’ossessione del controllo cinese sul proprio territorio è molto invasiva e si è affinata negli ultimi anni: nulla deve scappare allo sguardo del Partito.

I regimi autocratici sono sempre stati più equipaggiati ad affrontare la modernità: possono vantare l’adesione semi-totale di milioni di persone, abituate – dal regime e dalla sua ideologia – a non porsi domande e a fruire delle meraviglie della tecnologia, della community. Della radio nella Germania nazista anni Trenta; di Internet nella Cina comunista oggi. Oltre lo schermo, il Partito se ne compiace: controlla, esamina, studia, osserva, spia. Va da sé che è imperativo annientare tutti i flussi contrari al sistema di controllo. La censura è infatti tipica dei regimi totalitari; in Cina, questa trova convenzionalmente origine ideologica nella frase di Deng negli anni Ottanta: «Se si aprono le finestre, entreranno sia l’aria fresca che le mosche». Quelle mosche che potrebbero contaminare e traviare il popolo: libertà di stampa, di informazione, di pensiero, di opinione.

Il Partito Comunista gestisce e controlla l’informazione e il controllo tout court nel paese. Nulla esiste al di fuori del Partito, della sua narrazione, della sua visione. L’avvento di Internet fu ed è una grande occasione per controllare in una maniera precedentemente inimmaginabile milioni di individui. Il flusso è unidirezionale: il Partito nutre; il popolo consuma. Il Partito decide cosa mostrare o meno, cosa censurare, cosa far passare. Lo spiega bene Giada Messetti (Nella testa del Dragone): dalle reti Internet in Cina sono bandite le “tre T” – Tibet, Taiwan e Tienanmen –, la pornografia, le informazioni sulla provincia dello Xinjiang (nel Nord della Cina: là dove il controllo si è evoluto in genocidio). L’Internet di Xi Jinping – il Presidente della Repubblica è stato accostato a Winnie the Pooh (bandito pure l’orsetto della Disney, ovviamente) – è un enorme filtro dove tutto passa al setaccio del Partito. Che controlla e censura, anche alla luce della propaganda comunista.

Dropbox, WhatsApp, Facebook, Twitter, Netflix, Instagram, Google, Wordpress, Wikipedia, Telegram, Pinterest, BBC, The New York Times sono proibiti in Cina, ricorda Messetti. Tutto deve essere “Made in China”; la garanzia migliore per il Partito, che nel paese ha un occhio vigile su ogni aspetto della vita sociale degli individui. Il controllo maniacale del PCC sul consumo mediatico-informativo della popolazione è volto anche all’accalappiamento dei big data. Messa al servizio del Partito, l’Intelligenza Artificiale in Cina è sistematicamente applicata nell’ambito del controllo dell’uomo sull’uomo a tutti i livelli della società. Elabora Messetti: «I cinesi non prestano molta attenzione alla protezione dei dati personali, non temono l’invasività di molte procedure a cui si sottopongono. Sono tolleranti prima di tutto perché spesso le nuove tecnologie facilitano la fruizione di consumi che, per molti, sono diventati obiettivo principale».

L’espansionismo tecnologico, della comunicazione e dei dati non è spesso e volentieri vissuto come qualcosa che limita la vita dei singoli in Cina; è anzi uno strumento che consente di fruire di beni e di consumi inimmaginabili una generazione prima. E per averli, molti sono anche disposti a notificare al Partito Comunista le loro preferenze, abitudini, vite – complice anche una concezione di privacy diversa rispetto a quella occidentale. È però in milioni di indifferenti che i totalitarismi trovano spazio di manovra per la semina del consenso e del controllo. Continua Messetti: «In molti attraversamenti pedonali di Shanghai, il volto di chi cammina senza rispettare le strisce viene riconosciuto e proiettato su schermi giganti, in una sorta di pubblica gogna». Inoltre, «i poliziotti cinesi hanno in dotazione degli occhiali su cui è montata un’unità mobile per il riconoscimento facciale, che rende molto rapida l’identificazione di individui sospetti». Tutto è controllo: ed è tutto alla luce del sole. Dal dicembre 2019, le compagnie telefoniche cinesi «hanno reso obbligatoria la scansione dei volti dei clienti che acquistano una nuova SIM Card».

Ma il sistema più diabolico di tutti è quello dei crediti sociali, un sistema di punteggio del “buon cittadino cinese”, del “patriota”; di chi segue le direttive del Partito Stato. «Passo con il semaforo rosso? Perdo 50 punti. Dono il sangue? Più 45 punti. Disturbo gli altri passeggieri in treno? Addio 25 punti. Partecipo a un evento organizzato dal governo cittadino? 40 punti [...] Non pago le bollette in tempo? Spariscono 35 punti [...] I “bravi cittadini” (categoria A) vengono premiati con sconti sulle bollette [...] I “cattivi” (categoria D), invece, incorrono in sanzioni come il divieto di acquisto dei biglietti di treni e aerei e il mancato accesso ad alcuni impieghi statali». La quotidianità delle persone diventa una sorta di rincorsa continua: uno sprint per ottenere la benedizione del Partito. Pena, una sanzione o il dis-engagement dalla community.

Acuti studiosi come Shoshana Zuboff ed Evgenij Morozov hanno parlato a giusto titolo di “capitalismo della sorveglianza”; si parli però anche di “Comunismo della sorveglianza” cinese, che piega la tecnologia secondo i propri fini di indottrinamento e controllo sociale, tra censura e spionaggio di massa. Questo non vuol dire che nell’Occidente liberaldemocratico il controllo sugli individui non esista: se non altro, però, non è uno Stato a farsi carico dell’educazione e/o dieta tecnologica e mediatica delle persone al fine di indottrinarle. Tutto sommato, nel tanto celebrato West – quello della fine della Storia – la censura non è generalizzata, la società non è di stampo piramidale e lo Stato, fortunatamente, non esercita un controllo maniacale e pervasivo sulla vita delle persone. Gli abusi dei dati che alcune aziende hanno fatto in Occidente nei confronti dei propri utenti è gravissimo, ma questo non ha nulla a che vedere con la critica al sistema orwellian-tecnocratico e totalitario cinese, che censura, controlla, manovra nell’ambito di un “Comunismo della sorveglianza” non-stop. La globalizzazione è sì arrivata in Cina: ma è una globalizzazione del controllo.