Nelle elezioni del 1921, il pensiero di Don Sturzo

L’occasione dei cento anni dalle elezioni del Regno d’Italia del 15 maggio 1921 consente di ricordare l’eccezionalità entro cui queste si svolsero, così come una figura importante e significativa per l’epoca e i suoi sviluppi futuri, Don Luigi Sturzo. Le elezioni parlamentari di un secolo fa furono le ultime elezioni “libere”, seppure svoltesi nella fragile Italia post-bellica, prima delle violenze e dei brogli fascisti delle consultazioni successive del 1924. Costante della Storia d’Italia – ed era così anche allora – le elezioni si tennero in un clima di pesante incertezza. Il Partito Popolare Italiano, che nella tornata precedente aveva ottenuto il 20.5 per cento dei voti e cento deputati a Montecitorio, emerse come forza indispensabile per qualsiasi governo che andava formandosi. Nel 1921, a parità di voti, aggiunse otto parlamentari, sebbene le elezioni si svolsero anche alla luce delle prime violenze nere, rivolte non solo verso gli esponenti socialisti, ma pure verso i cattolici.
Il terzo congresso del Partito Popolare a Venezia vide l’emergere di una posizione attendista nei confronti del Fascismo. Don Sturzo era il segretario del PPI e rimase alla testa dello stesso fino al luglio 1923; a seguire, ci fu una reggenza composta dalla triade di Giulio Rodinò, Giuseppe Spataro e Giovanni Gronchi. Nel maggio 1924 a Sturzo succedette per breve tempo anche Alcide De Gasperi, fino alle elezioni del 1924, le terze ultime del PPI. Con l’avvio degli anni Venti, la Santa Sede era più interessata al trasformismo mussoliniano che al PPI, una frangia del quale si dedicava più alla componente sociale e strizzava l’occhio al Partito Socialista Italiano – intollerabile per il Clero – che era arrivato primo alle elezioni del 1921. Per l’occasione, il risultato del PPI fu notevole, anche perché il partito rappresentava ancora un elemento di novità nella politica italiana.
Oltre aver retto al battesimo del fuoco nel 1919, il PPI si era sempre di più profilato come un importante elemento di stabilità, a cavallo tra Stato e Chiesa, associazionismo cattolico e conservatorismo campagnolo. Nel periodo 1919-1924 (ventiseiesima legislatura del Regno), Sturzo elaborò concetti che poi riprese negli anni dell’esilio americano e pubblicò una volta rientrato in Italia, nei primi anni della Prima Repubblica. Il sacerdote di Caltagirone aveva capito che la neonata repubblica aveva debolezze di fondo che né il Fascismo né la guerra erano riusciti ad estirpare – e di questi, vent’anni prima, erano state concause. I difetti a livello dell’amministrazione e della burocrazia italiana vennero replicati dal 1946-8 in poi, come fu nel 1918-9. In una serie di articoli pubblicati su diversi giornali una volta tornato in patria, Sturzo fece tesoro dell’instabilità appresa negli anni pre-Fascismo. Proprio a partire dalle elezioni del 1921, elaborò la tematica della moralizzazione e della burocrazia corruzione della vita pubblica.
In “Moralizziamo la vita pubblica” (L’Italia, 3 novembre 1946) spiegò che «il dovere di essere morali nella vita pubblica è superiore agli accorgimenti politici e alle mire di successo». Sturzo denunciò storture e problemi che ancora oggi attanagliano la vita pubblica e la Pubblica Amministrazione italiana. «Applicare sistemi fiscali ingiusti o vessatori è immoralità; dare impieghi di Stato o di altri enti pubblici a persone incompetenti è immoralità; aumentare posti di lavoro senza necessità è immoralità», così come lo è «abusare della propria influenza o del proprio posto di consigliere, deputato, ministro, dirigente sindacale, nella amministrazione della giustizia civile o penale, nell’esame dei concorsi pubblici, nelle assegnazioni di appalti» (ibid.). Don Sturzo aveva a cuore la centralità dell’individuo – la dottrina sociale della Chiesa era fondamentale nella tradizione cattolica italiana – e la sua responsabilità di fronte ai fenomeni e agli eventi sociali.
Sturzo evidenziò comportamenti individuali e la tendenza di molti di dare sempre la colpa al prossimo. «Oggi tutti lamentano l’immoralità privata: ragazzi di strada corrotti, ragazze prostitute, famiglia in disordine, mercato nero, approfittatori della miseria comune per arricchirsi, disparità enorme tra nuovi milionari [...]. Ma [...] bisogna che la prima a essere corretta sia la vita pubblica: ministri, deputati, sindaci, consiglieri comunali, cooperatori, sindacalisti siano esempio di amministrazione rigida di osservanza fedele ai principi di moralità.» Sturzo riconosceva importanza da parte della classe dirigente di dare l’esempio; lo faceva in un paese dove il tasso di alfabetizzazione era ancora piuttosto limitato e il suffragio non era universale. In questo senso, “moralizzare la vita pubblica” voleva dire che le classi dirigenti avevano una responsabilità particolarmente accentuata vis-à-vis il resto dei cittadini. Che tuttavia, dovevano – e devono – prendersi le loro responsabilità.
La seconda tematica sviluppata da Sturzo è quella della corruzione e della necessaria pulizia da esercitare nello Stato per non crollare nell’immobilismo politico e nella corruzione – che potrebbe degenerare nella richiesta popolare di un uomo forte che metta a bada i burocrati. «Pulizia! Pulizia morale, politica e amministrativa», auspicava il sacerdote (Il Giornale d’Italia, 2 gennaio 1958). «Solo così potranno i partiti ripresentarsi agli elettori in modo degno per ottenere i voti, non facendo mai valere i favori fatti a categorie gruppi». Da cattolico, Sturzo era interessato al concetto di comunità, che non doveva avvenire a scapito della responsabilità individuale delle classi dirigenti e anche dei cittadini. Cittadini che non devono dare la colpa allo Stato rispetto a una mancanza di codici morali nella vita pubblica. «Lo Stato non immunizza il male né lo tramuta in bene, ma fa subire ai cittadini gli effetti cattivi delle azioni disoneste dei propri amministratori, governanti e funzionari, mentre produce effetti benefici con la saggia politica e l’onesta amministrazione.» (ibid.).
Sturzo puntò il dito contro la corruzione morale e politica. All’alba della Repubblica, aveva già riconosciuto che c’era molta corruzione nella PA e che questa derivava da individui che non avevano il senso della legalità e della misura; e si appropriavano delle risorse dell’Erario. Un vizio che apparteneva anche alle classi dirigenti fasciste e prefasciste. «Che dire poi di coloro che accumulano cariche su cariche?», si chiese Sturzo (La Via, 5 novembre 1949). «Ci sono parlamentari che hanno sino a 14 uffici dei vari consigli di amministrazione [...]. Che costoro facciano tutto bene è impossibile; che facciano tutto male sarebbe esagerato [...]; ma che molto sia trascurato, rimandato, malfatto, affidato ad altri, sarà cosa normale.» (ibid.). Andò così e di fatto diventò normale: l’inadeguatezza della classe dirigente del tempo è stata una costante nella Storia d’Italia: ed è sempre emersa in elezioni chiave, come quelle del 1921 e del 1924, così come quelle del 1992 e del 1994. In tutti i casi, Don Sturzo aveva avvertito.