L’intervista

Politically correct vs. libertà d’espressione?

È sempre di grande attualità il dibattito sulle questioni legate al rapporto tra il linguaggio e il politicamente corretto. Cerchiamo di rintracciare l’utilità e i limiti di quest’ultimo con il Professor Carlo Lottieri
Financial Times 06.02.2020, © Harry Haysom
Antonio Paolillo
Antonio Paolillo
27.05.2021 06:00

Se le dico «politically correct», quali sono i primi pensieri che le vengono in mente?

«Provo a tradurre “politically correct” e a parafrasare. In sostanza, siamo dinanzi a un canone di “correttezza” nell’uso del linguaggio, il quale è però definito in termini politici: a partire da una certa visione ideologica (il che è legittimo). Il problema è che questo canone tende costantemente a tradursi in norme legali, dato che ormai il diritto è quasi ovunque diventato la semplice volontà di quanti controllano il monopolio della forza. Quindi, a me pare normale che ci sia un vivo dibattito non soltanto su “cosa si deve pensare”, ma anche su “come ci si debba esprimere”. Nei decenni scorsi molti libri di storia sono stati scritti infittendo le analisi con termini come “borghese”, “alienazione”, “conflitto di classe”, ecc. Una scuola storiografica marxista ha riletto i contenuti delle vicende del passato e, per farlo, ha dovuto anche modificare il lessico. Se uno non è marxista ha molto da dire di fronte a ciò, ma l’operazione è più che lecita.

Altra e ben differente cosa, però, è imporre un certo modo di esprimersi usando la coazione della legge e accompagnando ciò con sanzioni. Di recente, in Italia, si è addirittura riportato in vita il reato di “vilipendio” (un tempo, “lesa maestà”), dato che un docente universitario ha usato espressioni critiche nei riguardi del presidente Mattarella. Questo è inaccettabile».

Qual è il confine, se esiste, tra libertà di espressione ed etica del linguaggio?

«Credo che, innanzi tutto, sia lo stesso confine che separa la libertà dall’etica. La seconda è possibile soltanto in presenza della prima, dato che non è possibile “agire bene” se non vi è alcuna autonomia personale. Detto questo, ognuno è responsabile di quanto dice, ma questa responsabilità è di ordine morale, e non giuridico. In una società libera se dico sciocchezze sono sanzionato socialmente dal discredito, e non certo da processi e condanne.

Uno dei punti fermi della tradizione occidentale schierata a difesa della tolleranza (da Montaigne a Pierre Bayle, da Baruch Spinoza a John Locke, a John Stuart Mill) è che “le opinioni non sono azioni”. Insomma: una cosa è teorizzare una società marxista e altra cosa (e ben diversa!) è operare un esproprio proletario, derubando il prossimo. Non sono mai stato marxista, ma non voglio vivere in un mondo in cui qualcuno possa di nuovo mettere al rogo Das Kapital».

Carlo Lottieri, professore associato di Filosofia del Diritto presso il Dipartimento di Scienze giuridiche di Verona e Direttore del Dipartimento di teoria politica dell’Istituto Bruno Leoni. Al Bachelor attivato dall’ISFI di Lugano insegna Filosofia del diritto e Filosofia politica.
Carlo Lottieri, professore associato di Filosofia del Diritto presso il Dipartimento di Scienze giuridiche di Verona e Direttore del Dipartimento di teoria politica dell’Istituto Bruno Leoni. Al Bachelor attivato dall’ISFI di Lugano insegna Filosofia del diritto e Filosofia politica.

Il linguaggio, per natura, è un qualcosa in continua evoluzione. È giusto, secondo lei, che venga revisionato, modificando o eliminando espressioni ritenute inopportune o discriminatorie?

«Pretendere di fissare un linguaggio secondo oggettivi criteri di correttezza è assurdo. Faccio un esempio: in passato, nella lingua italiana, il termine “nero” indicava il colore, mentre “negro” indicava l’essere umano. Questioni interne all’utilizzo della lingua inglese, soprattutto in Nord America, hanno portato a una trasformazione anche dell’italiano corrente. Ma come lei rileva, non è escluso che a questo mutamento ne seguano altri, perché nel nostro esprimerci teniamo in considerazione molte cose. Un altro dato va sottolineato: chi controlla le parole controlla il pensiero. Questa è una lezione cruciale di George Orwell, che a mio parere sarà ricordato sempre più come pensatore, e non solo come letterato. Nell’appendice a 1984 dedicata a riflettere sulla neo-lingua, il romanziere inglese aiuta a comprendere il nostro tempo, nel quale una corretta esigenza di buona educazione è usata a pretesto per ampliare il dominio di quanti ci governano. L’alternativa alla neo-lingua (rigida, ottusa, imposta per legge) è la libertà di parola: quel costante confronto sui contenuti che è, sempre, anche un confronto sulle forme».

Il politically correct pone dei limiti alla satira?

«Questi limiti sono evidenti e illegittimi. D’altra parte, gli inquisitori non hanno il senso dell’ironia: vale oggi come valeva nella Spagna del XV secolo. Il riferimento alla persecuzione di ebrei e musulmani da parte dei reali spagnoli non è casuale, perché qui siamo di fronte a un tentativo del potere politico di riformularsi e rafforzarsi. In una società aperta, il diritto di sbattere la verità in faccia al potere è cruciale. Nelle grandi letterature abbiamo molti esempi di scrittori che hanno usato l’ironia e perfino lo sberleffo per evidenziare questo o quel problema. Ora che subiamo bavagli di ogni genere, le nostre libertà sono molto più fragili».

Attraverso i suoi canali social, il celebre giornalista Enrico Mentana ha affermato che la cancel culture ricorda i roghi di libri del nazismo. Un suo commento?

«È così, certo! Il rischio è che si possa addirittura arrivare a negare la lettura della Bibbia, dato che – per ragioni storiche del tutto evidenti! – si basa spesso su una certa visione della donna, evoca la presenza di schiavi, usa termini molto duri nei riguardi dei rapporti omosessuali, e via dicendo. Il termine cancel culture è orribile e quello che sta a indicare deve preoccuparci: non si tratta, infatti, di cancellare alcunché, ma invece di capire storie e culture».

Ci sono ambiti professionali in cui il professionista deve essere politicamente corretto anche in situazioni informali?

«Credo che siano possibili rapporti lavorativi che escludano taluni comportamenti (ad esempio a tutela dell’azienda). Questo già esiste, poiché se lavoro per un’impresa non posso parlar male dei suoi prodotti, ecc. Tutto deve restare, però, all’interno di un quadro di relazioni contrattuali, e quindi liberamente scelte: senza che la volontà dei governanti pretenda di decidere in un senso o nell’altro».